Popoli dimenticati e migranti al centro della seconda giornata del Festival del Giornalismo
Il genocidio degli yazidi e "Ants", documentario di Valerio Nicolosi sulle rotte dei migranti, tra i temi del pomeriggio di venerdì 14 marzo.

Il genocidio degli yazidi e "Ants", documentario di Valerio Nicolosi sulle rotte dei migranti, tra i temi del pomeriggio di venerdì 14 marzo.
Va in archivio la seconda giornata del Festival del Giornalismo di Verona 2025 organizzato da Heraldo con la co-organizzazione del Comune di Verona.
Il pomeriggio dí venerdì 14 marzo è stato caratterizzato da due appuntamenti dedicati agli esteri e alle migrazioni. In Fucina Culturale Machiavelli il giornalista Murat Cinar e Pietro Albi della onlus veronese One Bridge To hanno dialogato con la giornalista Jessica Cugini e raccontato al pubblico del Festival il dramma del popolo yazida.
Gli yazidi sono un popolo diffuso in diversi paesi medio-orientali, anche alle porte dell’Europa come la Turchia, vittima nel corso della storia di 75 tra pogrom e genocidi. Per capire il perché di questo odio e di questa storia dimenticata si può prendere ad esempio il proverbio arabo citato in apertura da Jessica Cugini: “Tre calamità vi sono al mondo: le locuste, i topi e i curdi”.
Il termine stesso “yazidi”, «in realtà Ezidi con la E e non con la Y, custodisce dentro di se un pezzo di storia legato a percorsi di emarginazione che questo popolo ha subito» spiega Murat Cinar.
È stato il nome di un califfo, Yazid ibn al-Muhallab, che nel VII secolo d.C. guidò un califfato con un profilo clericale in Medio Oriente alternativo – e in guerra con – all’Islam. Per questo ad oggi il termine per i musulmani significa “diavolo” e “traditore”. La sua affinità alla parola che indica gli ezidi, popolazione non monoteista, che dal punto di vista dei musulmani “hanno sostituito gli animali a dio” e curdofona ha reso il popolo ezida bersaglio dell’odio e della violenza nella regione. «Sono 800 mila. In Turchia sono quasi scomparsi, i ricercatori dicono sono 200 e il nucleo più grande è in Germania» spiega Murat Cinar.
Il genocidio del 2014, a seguito dell’invasione del Sinjar – regione settentrionale dell’Iraq – da parte dello Stato Islamico (noto anche come ISIS o Daesh), è una ferita ancora lontana dai riflettori internazionali, che ha visto tra i testimoni sul campo i volontari di One Bridge To:
«Siamo operativi in Italia, Grecia e Kurdistan Iracheno. In Iraq operiamo da 8 anni nel campo di Basik Candala, sul fiume Tigri, a nord dell’Iraq al confine con Siria e Turchia, un campo che ospita 8700 persone. Dopo 11 anni sono presenti 21 campi profughi per sfollati interni nel Kurdistan iracheno, in territori contesi anche dall’Iraq federale. Oltre a questi ce ne sono 9 per siriani. Non coabitano gli stessi spazi perché c’è una situazione di pericolo per gli ezidi nel vivere a contatto con musulmani. Parlerei di enclavi ed esclusioni, similmente ai centri di accoglienza in Italia che sono fuori dalle città. Lo scorso anno è arrivato il via libera per costruire le case in mattone che significa “non si torna più a casa”» racconta Albi.
Non si parla solo di morti ed esiliati, ma anche dell’aberrante compravendita di esseri umani. Spiega infatti Cinar: «Il Daesh è rimasto nell’area e donne di ogni età sono stare rapite e rivendute in tutto il Medio Oriente, per un prezzo pari da 5 a 20mila dollari a persona. Alcune di queste donne sono anche arrivate in Europa». Questo con la complicità dei paesi e la corruzione dilagante anche all’interno dei consolati sostiene Cinar: «Il Daesh ha persino aperto uffici per la vendita di queste donne in Turchia, a Gaziantep, ripresi da troupe televisive tedesche».
Allargando il campo della discussione sugli altri genocidi in corso e già avvenuti Cinar afferma: «Essere complici rende difficile riconoscere un genocidio. I criteri di Aia e ONU sono chiari. L’Europa è stata complice del genocidio degli algerini, per esempio, e lo ha fatto sostenendo forze paramilitari e vendendo armi».
Aggiunge in chiusura Albi: «Noi dal colonialismo abbiamo una responsabilità importantissima e una memoria brevissima nel riconoscere i genocidi. Io sono convinto che quello che sta accadendo in Palestina è un genocidio ma non ho la libertà di dirlo. A me fa paura tantissimo questa cosa. Dobbiamo portare ad un livello differente queste azioni, anche da un punto di vista numerico».
Sempre rimanendo nel campo delle inchieste e dei reportage, il giornalista freelance Leonardo Delfanti ha presentato il progetto “L’ora del pitch”, newsletter per aiutare nella proposta di pitch a redazioni.
A partire dalle 21 invece il focus si è spostato sui migranti. Sul palco della Fucina Machiavelli il giornalista Valerio Nicolosi ha dialogato con le giornaliste Elisabetta Ambrosi e Giovanna Girardi partendo dal documentario da lui stesso realizzato nel 2021, “Ants”.
“Ants”, in italiano “Formiche”, racconta il dramma dei migranti che fuggono da paesi in guerra di Africa e Asia. Nicolosi per 100 giorni è stato sulle imbarcazioni di Open Arms che soccorrono i migranti nel Mediterraneo centrale. Si aggiunge a questa prospettiva il racconto delle vicende lungo le rotte migratorie sui Balcani.
Un documentario che, come spiega il suo autore, ha voluto ridare dignità ai corpi di queste persone «spinto dall’idea che l’Europa ha basato tutto sul concetto di “Fortezza Europa”. In questi anni ho visto questa struttura, che per noi è un privilegio mentre per le persone respinte è morte».
Nicolosi ha parlato di come queste rotte cambino, degli accordi tra paesi definiti «scellerati» e che mai hanno portato alla creazione di corridoi umanitari sicuri. «Quello che è accaduto nel Mediterraneo è la disumanizzazione, attaccare chi fa solidarietà e fare la guerra ai poveri, quando invece una volta facevamo la guerra alla povertà» aggiunge Nicolosi.
Nel suo racconto si alternano le immagini e le storie delle città di Bihać (Bosnia), del campo profughi di Moria a Lesbo (Grecia). Da un lato Nicolosi descrive l’orrore di questi posto: «Era l’inferno, l’unico posto al mondo dove i bambini tentavano il suicidio. Un posto pensato per 3 mila persone dove ce ne stavano 21 mila stabilmente. Questo dovrebbe essere il benvenuto che l’Europa dà a queste persone».
Dall’altro ricorda la grande risposta delle organizzazioni umanitarie: «Lesbo è stato un laboratorio di solidarietà pazzesco. A Moria c’erano tantissime organizzazioni che arrivavano da tutta Europa e tutto il mondo che però era un supplire ad una mancanza di visione politica, facendo un gesto, di tendere un braccio a queste persone, fortemente politico».
Elisabetta Ambrosi ha condiviso una riflessione sulle emozioni che questo documentario evoca, senza mai ricercare tuttavia la spettacolarizzazione del dolore: «Ho amato il registro emotivo molto calmo. Non servono scene da incubo per spiegare l’orrore più estremo dove la violenza è ovunque. Quello che questo documentario suscita è la domanda universale a cui non abbiamo risposta: “Perché non riusciamo a pensarci uguali?”. Come giornalisti dovremmo smettere di mettere in prima pagina i potenti, ma mettere i buoni. Questo è il lavoro che fa questo documentario».
L’incontro è stato sostenuto da Koalisation. Il Festival del Giornalismo prosegue sabato 15 e domenica 16 marzo, sempre in Fucina Machiavelli. Il programma completo è consultabile sul sito ufficiale.
© RIPRODUZIONE RISERVATA