Si tende spesso a discutere il cambiamento climatico come un fenomeno globale, concentrandosi soprattutto sull’aumento medio delle temperature, che secondo l’Accordo di Parigi dovrebbe essere limitato a 1,5-2 gradi entro il 2100. Tuttavia, questa visione rischia di semplificare una realtà molto più complessa, ignorando le profonde variazioni locali che caratterizzano gli effetti del riscaldamento globale.

Ad esempio, l’Artico si sta scaldando a un ritmo quattro volte più rapido rispetto alla media globale, mentre alcune regioni potrebbero persino raffreddarsi. Questo è il caso del Regno Unito, in caso di un collasso della corrente del Golfo, o del nord-est degli Stati Uniti, dove uno spostamento del vortice polare potrebbe abbassare le temperature. L’impatto del cambiamento climatico dipenderà, inoltre, dalla configurazione geografica, dallo stato degli ecosistemi e dalle loro capacità di resistere, ma sarà fortemente influenzato anche da fattori politici, economici e sociali.

Chi sarà in grado di adattarsi rapidamente, grazie a risorse economiche, tecnologiche e a politiche lungimiranti, vivrà il cambiamento climatico con meno devastazione. Al contrario, chi mancherà di preparazione o di strumenti sarà il più esposto alle conseguenze, come già accade. Viviamo in un’epoca in cui le migrazioni climatiche sono una realtà, anche se raramente vengono riconosciute come tali, e in cui eventi estremi come incendi, alluvioni, siccità e tempeste colpiscono in modo sproporzionato le aree più vulnerabili del pianeta. L’Africa subsahariana, gli Stati insulari del Pacifico e alcune regioni dell’America Latina ne sono esempi evidenti.

L’idea che il cambiamento climatico colpisca tutti in modo equo è un mito pericoloso. Un’alluvione in uno slum di Nairobi ha effetti devastanti incomparabili rispetto a un evento simile in un’area come Rotterdam, protetta da infrastrutture avanzate. Allo stesso modo, affrontare un’ondata di calore in una casa climatizzata è ben diverso dal sopravvivere sotto un tetto di lamiera a temperature estreme.

Foto da Unsplash di Annie Spratt

Gli effetti del cambiamento climatico non si limitano a queste conseguenze dirette: esso impone trasformazioni profonde anche a livello economico, sociale e politico. Per contenere almeno in parte queste crisi, è indispensabile una riduzione drastica delle emissioni di gas serra. Secondo il Sesto Rapporto dell’IPCC del 2022, senza un cambio radicale nelle politiche climatiche ed energetiche, entro il 2100 il riscaldamento globale potrebbe raggiungere quasi 3 gradi, ben oltre il limite di 1,5 gradi che ancora rappresenta la nostra speranza. Raggiungere questo obiettivo richiede un picco delle emissioni entro il 2025 – un traguardo imminente – e una trasformazione radicale nei sistemi di produzione, consumo e generazione energetica.

L’energia, infatti, è il settore principale responsabile delle emissioni di gas serra, e la sua transizione verso forme sostenibili avrà enormi implicazioni su scala globale. Paesi la cui economia dipende fortemente dai combustibili fossili, come Qatar o Arabia Saudita, saranno costretti a una riconversione rapida e senza precedenti, che metterà a dura prova le loro capacità di adattamento. Le comunità che si sono arricchite grazie al petrolio, al gas o al carbone dovranno trovare soluzioni alternative in tempi brevissimi, e per molti ciò sarà estremamente difficile, se non impossibile.

Questo rende cruciale il concetto di Just Transition, una transizione energetica “giusta” che si prefigge di non lasciare indietro le fasce più vulnerabili della popolazione. Garantire una transizione equa non è solo una questione morale, ma un elemento indispensabile per affrontare le sfide globali di un futuro inevitabilmente plasmato dal cambiamento climatico.

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