La settimana del 25 novembre organizzata in occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne ha visto anche a Verona alternarsi tanti eventi per la cittadinanza per discutere di buone pratiche e contrasto ai femminicidi.

Sempre più spesso a prendere la parola sono gli uomini al fianco delle donne, per anni sole relatrici intorno a una questione che purtroppo per troppo tempo ha visto principalmente voci femminili. 

Lo scorso martedì 26 novembre nella Sala Convegni di Palazzo della Gran Guardia in Piazza Bra, l’evento promosso dall’Azienda ULSS 9 Scaligera all’interno di “Riguarda anche te” dal titolo “Cultura, arte, educazione in dialogo per promuovere il benessere nelle relazioni affettive e per contrastare la violenza contro le donne” ha saputo coinvolgere rappresentanti del mondo dell’educazione, dello sport, del giornalismo, dei servizi e del sistema giudiziario.

Il dottor Filippo Saccardo

Alla tavola rotonda ha partecipato, tra gli altri, Filippo Saccardo, psicologo dello Spazio di ascolto per uomini che agiscono violenza (N.A.V.) e formatore per il Centro Antiviolenza P.E.T.R.A.

Laureato in Filosofia e in Psicologia Clinica, attualmente specializzando in psicoterapia ad orientamento psicoanalitico, collabora con la cattedra di Psicologia dello Sviluppo Emotivo presso l’Università di Trento.

Lo Spazio di ascolto per uomini N.A.V., Non Agire Violenza scegli il cambiamento, è un servizio rivolto a coloro che agiscono violenza nelle relazioni affettive e intrafamiliari, e fa parte della Rete veneta dei Centri di trattamento per gli uomini autori di violenza nelle relazioni di genere.

Filippo Saccardo, quanti uomini avete incontrato nel centro NAV finora? 
«Il centro Non Agire Violenza ha iniziato la sua attività sul finire del 2013. Fino ad oggi sono stati presi in carico più di 350 uomini, con un andamento sempre crescente di anno in anno.

Nell’ultimo anno i numeri quanto sono aumentati?
«Tra gennaio e novembre 2024 abbiamo avuto 65 nuovi accessi con un incremento di circa il 20% rispetto all’anno passato, percentuale che coincide con l’aumento delle denunce segnalate da Questura e Tribunale. L’attuale amministrazione comunale ha investito molto sul Centro Uomini Autori di Violenza proprio per riuscire a far fronte all’aumento di richieste e perché convinta che sia un’attività che si riflette direttamente sulla sicurezza delle donne vittime di violenza. Se inizialmente c’era un solo psicoterapeuta a lavorare presso il servizio, ora siamo in quattro (due uomini e due donne) e riusciamo a coprire cinque giorni alla settimana con percorsi individuali e di gruppo.»

Attività di formazione presso un istituto scolastico

Cosa significa essere un uomo maltrattante?
«Quando pensiamo ad un uomo maltrattante spesso pensiamo al mostro e probabilmente lo facciamo rispondendo ad un meccanismo di difesa che ci induce a tenere a distanza la questione della violenza di genere dalla nostra quotidianità, come se la cosa non ci riguardasse. Si tratta invece di uomini comuni, come molti altri, che si sono resi responsabili di reati di violenza all’interno delle proprie relazioni intime o familiari.»

E questi uomini come possono avvicinarsi al vostro centro? Come possono contattarvi?
«Per contattarci il primo passo da fare è chiamare il numero dello sportello ascolto negli orari reperibili sulla nostra pagina informativa e fissare un colloquio.» https://www.comune.verona.it/nqcontent.cfm?a_id=39436&tt=verona_agid

Perché gli uomini arrivano da voi? Sono spinti dalle compagne o segnalati dai servizi del Comune o dalle forze dell’ordine?
«Le persone che accogliamo presso il nostro Centro possono presentarsi spontaneamente, su invio del difensore legale o, più comunemente, sono inviate dal Tribunale (con cui abbiamo da poco siglato una convenzione). Molti di loro si trovano quindi all’interno del percorso cosiddetto Codice Rosso. Chi si presenta spontaneamente lo fa perché è consapevole di avere difficoltà a gestire la rabbia, l’impulsività all’interno della relazione e, magari su suggerimento della compagna, ha maturato il bisogno di fare un percorso di sostegno e supporto al cambiamento.»

Foto del centro N.A.V., Non Agire Violenza

Se i numeri sono aumentati significa che c’è più sensibilizzazione e consapevolezza?
«I numeri vanno sempre letti e interpretati all’interno di un contesto, andrebbero incrociati i dati di accesso al Pronto Soccorso, quelli dei Centri Antiviolenza assieme a quelli delle Questure e dei Tribunali. Penso che l’aumento degli accessi al Centro sia correlato all’aumento delle denunce e sia un segnale dell’emersione del fenomeno. Emersione che va interpretata come effetto della normativa vigente, della sensibilizzazione diffusa, della maggiore consapevolezza che di fronte a certi comportamenti occorre denunciare e non abbassare la testa. Quindi maggiore efficacia normativa, più sensibilità, più denunce, più accessi.»

Si ricorda una storia significativa che ha incontrato nella sua esperienza con uomini maltrattanti?
«Preferisco non raccontare una storia singolare perché tutto quello che gli uomini ci raccontano della loro vita è giusto che rimanga nella stanza di ascolto.
Posso dire di aver sentito tante storie da parte degli uomini con cui lavoriamo, ognuna è diversa dall’altra, dietro qualcuna si cela una bassa competenza emotiva, l’esposizione a modelli culturali patriarcali, altre nascondono traumi e fragilità sociali. Tutti questi elementi non vanno presi come giustificazione rispetto ai reati commessi ma come chiave per capire da dove arrivi la violenza agita e come punto su cui lavorare per favorire un cambiamento. A partire da questi sintomi di un legame violento orientiamo il nostro intervento lavorando sulla responsabilizzazione, sulle emozioni, sulla regolazione emotiva, sul linguaggio, sull’empatia, sulla gestione dell’impulsività, sugli stereotipi, sulla capacità di mentalizzare; lavoriamo inoltre sulla genitorialità perché spesso questi uomini sono padri. Sappiamo che la violenza è frutto di una scelta e cerchiamo di fornire loro una scelta alternativa e consapevole.»

Cosa pensa si debba fare per cambiare la cultura del possesso? 
«Dobbiamo sicuramente fare educazione all’affettività, affinare le capacità critiche rispetto a cultura e stereotipi. I due principali attori sociali che si occupano di educazione sono la scuola e la famiglia. La famiglia risente di una profonda crisi. Non esiste più lo scambio di saperi tra le generazioni e questo si riflette anche sulle competenze genitoriali.
Le relazioni intimo-affettive spesso riproducono le dinamiche vissute nella famiglia mononucleare di origine e, nei casi peggiori, avviene una trasmissione intergenerazionale della violenza. Dobbiamo quindi discutere che modello offriamo come genitori? Quando facciamo attività di formazione nelle scuole talvolta incontriamo giovani che ritengono accettabile controllare il partner. Poi scopriamo che sono gli stessi che hanno un genitore che li controlla rigidamente (con la geolocalizzazione, ad esempio) e dice di farlo per il loro “bene”; funziona un po’ come con le sberle, date a “fin di bene”, poi si finisce per accettarle anche nella coppia. Il possesso, la gelosia, funzionano allo stesso modo e nascono dalle nostre paure: di essere lasciati, di non valere abbastanza. Nella nostra cultura un maschio emotivo, o che semplicemente prova paura, viene spesso svilito. La rabbia invece è socialmente più accettabile e associata soprattutto ad un’idea di maschio forte e combattivo. Ecco, penso che vadano messi in discussione tutti questi meccanismi, portando l’educazione all’affettività nelle scuole, perché le scuole possono supplire ad eventuali carenze del sistema familiare.
C’è poi il grande tema dell’esposizione ai media, in cui l’assenza del filtro immaginario (il velo della fantasia) e del simbolico (l’incontro con la parola) espone ad un reale eccessivamente crudo, violento, che lascia traccia e può fare trauma. Una tale, continua, esposizione crea assuefazione, crea tolleranza a ciò che è intollerabile.»

Qual è il principale miglioramento che vede quando gli uomini sono pronti a lasciare il centro?
«La possibilità di cambiamento nasce dalla consapevolezza, dalla presa di responsabilità. Parlo soprattutto dell’esperienza terapeutica nei gruppi: quando un uomo è in grado di rispondere ad un altro, di dargli il consiglio giusto, di farlo riflettere, o anche di contenerlo emotivamente esattamente come faremmo noi operatori, allora si percepisce che qualcosa è cambiato. Il cambiamento non è uguale per tutti, dipende da diversi fattori, dalla storia di ognuno, dalla propria strutturazione, però pensiamo sia possibile e che valga la pena lavorarci.»

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