La nazionale italiana di tennis si è aggiudicata sia la Billy Jean King Cup (trofeo femminile, quinto successo italiano) sia la Davis Cup (trofeo maschile, terzo successo). Questa affermazione è una doppietta di assoluto prestigio riuscita solo ad altre quattro nazionali nella storia e che attesta l’incredibile competitività del movimento tennistico italiano, forte come mai prima d’ora.

La vittoria delle ragazze

Se la Sinnermania ha focalizzato le attenzioni mediatiche sulla Davis Cup in cui l’Italia partiva con i favori del pronostico, non solo per la presenza del numero uno del mondo ma anche per una profondità di soluzioni che nessun’altra nazione oggi può vantare, molta meno attesa c’era attorno alla squadra femminile. Certo, gli addetti ai lavori nutrivano una giustificata fiducia in Jasmine Paolini, fresca numero quattro del mondo, e nel doppio Sara Errani/Paolini, oro olimpico in carica, ma la mancanza di una seconda singolarista d’elite poneva molte incognite alla vigilia.

Invece, passo passo, la squadra azzurra capitanata da Tatiana Garbin, si è fatta largo nel tabellone della manifestazione. Prima battendo 2-1 un coriaceo Giappone, poi eliminando la favorita della vigilia Polonia, sempre 2-1, infine surclassando in una finale a senso unico la Slovacchia. La vittoria della squadra italiana, che colpevolmente non ha ricevuto alcun spazio televisivo dalla televisione di Stato, ha caratteristiche ben precise ed è, per alcuni versi, in antitesi rispetto ai successi della selezione maschile.

Il lavoro, la passione, la perseveranza

La nazionale femminile di tennis ha vinto, infatti, senza avere una vera e propria campionessa di livello assoluto. Le azzurre sono un team ben assortito, ma soprattutto sono atlete che oggi, così come fin qui nella loro carriera, hanno saputo andare oltre i propri limiti.
Partiamo dalla Paolini, fino all’anno scorso eccellente giocatrice, ma non una top player da prime posizioni mondiali. Nel corso del 2024, nel pieno della maturità agonistica, è sbocciata dopo i 25 anni, come di rado si vede in campo femminile, e ha scalato le classifiche mondiali giorno dopo giorno, grazie soprattutto ad una costanza di rendimento incredibile nei Major del circuito.

Finale a Parigi sulla terra, finale a Londra su erba, ottavi raggiunti anche in Australia e New York sul cemento, oltre all’oro olimpico nel doppio. E dire che in precedenza aveva vinto pochissimi match in tornei del Grande Slam.

Jasmine forse non sarà mai una numero uno. Non ne ha il talento, ma nella sua carriera ha dimostrato una passione e una perseveranza encomiabili, guidata con sapienza da Renzo Furlan, ex pro di buon livello, che aveva a sua volta fatto della regolarità il proprio marchio di fabbrica.

L’altra giocatrice che incarna i più alti valori sportivi è Sara Errani. Alle sue spalle una eccellente carriera da singolarista, anche nelle top10, poi scontratasi con un declino fisiologico dettato non solo dall’età, ma soprattutto da un fisico che registra 164 cm. Un handicap serio in uno sport in cui l’altezza rappresenta un fattore. Sara, invece di avviarsi ad una onesta pensione, si è reinventata doppista di livello assoluto grazie alla sua sapienza tattica e ad un raffinato gioco di volo a compensare le croniche lacune al servizio. La sua stagione da 37enne? Un oro olimpico in coppia con Jasmine, le Atp finals e ora la Billy Jean King Cup. Non chiamiamola favola, Sara è una realtà del tennis così come lo è la sua mentalità superiore.

Foto da Unsplash di Sicong Li

L’outsider che non ti aspetti

Le prestazioni di Jasmine in singolare sono state decisive sia per sfiancare Iga Swiatek in semifinale, sia ai quarti così come quelle della coppia Paolini/Errani, brave a chiudere le tirate sfide contro Polonia e Giappone. A fare la differenza è stata, però, Lucia Bronzetti. Lanciata dalla selezionatrice Garbin al posto di una Elisabetta Cocciaretto non ai suoi massimi di forma, l’atleta riminese ha stupito tutti. Nonostante un ranking non eccelso (è numero 78 del mondo), non ha tremato al suo esordio e ha portato a casa due successi su due incontri per nulla scontati.

Anche qui si potrebbe raccontare di una ragazza nata non certo con le stimmate della campionessa, ma dalla volontà incrollabile e che sta riuscendo a migliorarsi stagione dopo stagione. Si è fatta trovare pronta per l’appuntamento con la storia e, con le sue prestazioni, ha dato davvero una grossa mano alla nostra nazionale.

Lavoro e impegno non fanno notizia

Se guardiamo dunque alle storie personali di tutte le nostre atlete (senza trascurare le altre convocate Cocciaretto e Martina Trevisan) troviamo un filo conduttore. Sono tutte protagoniste di carriere costruite giorno dopo giorno con professionalità, entusiasmo, con competenza degli staff tecnici ed equilibrio. In questa squadra, dai profondi valori umani, non troviamo personaggi di grande impatto mediatico e da milioni di follower, ma eccellenti donne caparbie, per lo più solari, capaci di lavorare di lima sul loro tennis fino ad ottenere risultati da campionesse.

Eppure, se guardiamo, agli spazi televisivi a cui accennavamo, è triste constatare che in questo 2024 sia stato dato più risalto alle vicende extratennistiche di Camila Giorgi (ormai una ex atleta) che ai successi di questa nazionale azzurra. La ragazza italoargentina, dotata di un talento tennistico da numero uno, ma che mai in carriera ha dimostrato di riuscire a lavorare sui propri difetti e di poter essere un esempio assoluto come sportiva, rimane il più grande What if del tennis italiano dell’ultimo ventennio. Al contrario di questa nazionale, vincente ed esemplare.

La Davis Cup a Malaga – Foto di Osvaldo Arpaia

La nazionale maschile

Il successo in Davis Cup ha, invece, una genesi diversa. In campo maschile l’Italia, infatti, può schierare una quantità di talento che non ha paragoni nella storia del tennis nostrano anche se dovessimo paragonare l’oggi agli anni Settanta. Di Jannik Sinner si parla in ogni angolo d’Italia. A breve lo daremo quasi per scontato, ma pare proprio essere un numero uno non qualunque, di quelli generazionali.

Dietro di lui però Lorenzo Musetti, tennis da top five, testa ancora non da primissimi, Flavio Cobolli, Matteo Arnaldi e tanti altri sono in rampa di lancio per una carriera di altissimo livello. Discorso a parte merita, invece, Matteo Berrettini. La sua storia è quella da raccontare in questa Davis Cup e quella che merita un riflessione più approfondita.

Dalle stelle alle stalle e ritorno

Il tennista romano fino a due anni fa era uno dei giocatori indiziati per ereditare il testimone dei big three (Nadal, Djokovic, Federer). Forte di un servizio e dritto dirompente, era giunto fino alla sesta posizione delle classifiche Atp, ma con la netta sensazione che in quel momento potesse valere anche di più. Poi però arrivarono gli infortuni, una serie infinita, il più delle volte agli addominali, oltre a qualche gossip sulla sua vita privata la cui incidenza a livello sportivo non può essere giudicata dall’esterno.

Matteo Berrettini a Malaga – Foto di Osvaldo Arpaia

Caduto in un vortice di inattività alternato a scarsi risultati, Matteo non ha mai mollato. Lo scorso anno si è aggrappato alla Davis, pur da spettatore, e da lì ha provato a far ripartire la propria carriera. La sua vicinanza ai compagni e il suo incitamento da fuori nella rassegna 2023 è ricordato da tutti. In uno sport individuale come pochi, quello non fu un comportamento scontato, anzi.

Eppure oggi, dopo una Coppa Davis vissuta da trascinatore emotivo e da assoluto protagonista in campo, Berrettini si è dimostrato e ha dimostrato come si può avere cura del proprio indiscusso talento, come si può risorgere dalle ceneri e come si può beneficiare a titolo personale di un atteggiamento di disponibilità e generosità verso la squadra.

Questo alloro rimarrà nella storia come il secondo di Jannik Sinner e nelle settimane a venire molte delle attenzioni mediatiche saranno fagocitate dal fenomeno altoatesino. Quello che è certo, però, è che questa coppa non se la merita nessuno più di Berrettini.

Un 2024 irripetibile

La nazionale maschile di tennis in trionfo a Malaga –
Foto di Osvaldo Arpaia

Per i colori azzurri si chiude una stagione irripetibile i cui numeri principali è giusto ribadire:
– Vittoria in Davis Cup e Billy Jean King Cup;
– Atp finals, vittoria di Sinner, ma presenza di un atleta italiano in ogni torneo (oltre a Sinner, Paolini e i doppi Errani/Paolini e Bolelli/Vavassori);
– 2 vittorie nei trofei del grande slam (Australian Open e Flushing Meadows ad opera di Sinner);
– Oro olimpico con Errani/Paolini, bronzo olimpico con Musetti;
– Sinner e Paolini entrambi chiudono l’anno in top five;
– sei uomini nei primi 50 del mondo, otto nei primi 100 (ma Mattia Bellucci, in forte ascesa, è 101)

I freddi numeri dicono molto, specie dopo decenni di strutturali difficoltà del tennis nell’ottenere risultati, ma non raccontano tutto. Dietro a questi dati ci sono investimenti, organizzazione, professionalità, tempo e sacrifici spesi. Il tutto oggi, corroborato dai risultati, si è trasformato nel punto di riferimento per l’intero movimento internazionale.

Il mondo ci invidia Sinner, senza dubbio, ma ci invidia altrettanto un sistema capace di produrre innumerevoli atleti giovani e futuribili. Un volano di valore inestimabile per attrarre nuovi praticanti nei circoli e nei vivai. Quella a cui stiamo assistendo è, dunque, una nuova età dell’oro del tennis italiano.

L’auspicio è che l’euforia conseguente non produca una interruzione del circolo virtuoso che si è avviato, un sedersi sugli allori, ma che sia stimolo per un ulteriore passo avanti nel sistema tennis italiano.

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