L’omicidio di Diarra Moussa arriva in Parlamento. Sul caso, infatti, si sta muovendo anche Ilaria Cucchi che venerdì prossimo, insieme ai rappresentanti del Comitato Giustizia e Verità per Moussa, alle avvocate della famiglia Diarra e alla comunità maliana in Italia, chiederà un’interrogazione parlamentare con l’obiettivo di ottenere un’indagine rigorosa e imparziale sulla morte di Moussa.

È trascorso esattamente un mese da quel maledetto 20 ottobre, quando, alle 7.15 del mattino, un colpo sparato da un’agente della Polfer, ha colpito al cuore e ucciso Moussa Diarra. Quella domenica mattina il ragazzo maliano di appena 26 anni, secondo voci girate nelle ore immediatamente successive all’omicidio, si trovava in uno stato di alterazione e da circa due ore si aggirava nei dintorni della stazione. Pare che Moussa stesse maneggiando un coltello e minacciando il poliziotto, lo stesso che poi ha sparato i tre colpi di pistola, tra cui quello mortale.

Le reazioni a caldo

Il caso sembrava chiuso già nel pomeriggio del 20 ottobre, soprattutto sui social e nell’opinione pubblica: il ragazzo stava aggredendo il poliziotto in uno scontro corpo a corpo. Il poliziotto, dopo aver sparato dei colpi di avvertimento in aria, non ha avuto altra scelta che sparare al petto al ragazzo per difendere la propria vita. Quindi legittima difesa da parte del poliziotto e Moussa colpevole della sua stessa morte.

“Non ci mancherà” aveva subito postato il ministro Matteo Salvini su sui social, seguito da commenti analoghi ma soprattutto razzisti e di caratura ben più offensiva da parte di semplici cittadini che cavalcavano l’onda emotiva e la grande narrazione che si stava montando in quelle ore.  

Il giorno stessa della morte, politici locali e nazionali facevano riferimento a immagini riprese dalle tante telecamere che avrebbero confermato la legittima difesa da parte del poliziotto e l’aggressione ravvicinata da parte di Moussa. Addirittura, il giorno stesso è stato diramato, impropriamente, un comunicato congiunto Prefettura e Questura in cui si spiegava la sequenza degli eventi con il chiaro scopo di scagionare il poliziotto e chiudere in fretta il caso.

Invece, analizzando un po’ più attentamente i fatti, le cose non sembravano avere una conclusione così scontata. Anzi.

Nasce il comitato “Verità e Giustizia per Moussa”

Con il passare dei giorni le immagini delle telecamere non arrivavano. Emerse, poi, che i colpi sparati ad altezza uomo non era solo uno, cioè quello mortale, ma ben due. Il secondo è finito contro la vetrata dell’ascensore del parcheggio sotterraneo della stazione. Colpo che in un giorno infrasettimanale qualsiasi, con la stazione piena di pendolari, avrebbe potuto facilmente colpire qualcun altro. Nasce così la necessità di fare maggiore chiarezza sull’accaduto e l’idea di creare il comitato per richiedere giustizia e verità per Moussa.

Un comitato nato per smontare tutta la retorica che stava massacrando Moussa dopo la sua morte, dandogli del drogato, dello spacciatore, del clandestino, del nullafacente e altre voci che avevano il solo scopo di oltraggiare la memoria del ragazzo maliano e di cavalcare l’onda della paura e dell’insicurezza per colpa dei migranti.

Il gruppo, però, è nato soprattutto per vigilare e assicurare che il caso non venisse archiviato in fretta. Insieme al fratello maggiore di Moussa, Djemaguan, sono stati nominati due avvocate, Paola Malavolta e Francesca Campostrini. Sono stati attivati dei tecnici propri che potessero monitorare il corretto svolgimento delle indagini, dello studio della balistica e che seguisse l’autopsia del ragazzo. Autopsia dalla quale è emerso che Moussa non aveva sulle mani segni di colluttazioni, né polvere da sparo sulla pelle e sui vestiti, a smentire quindi il corpo a corpo ravvicinato tra il ragazzo e il poliziotto di cui si era parlato.

Nel frattempo passano le settimane e le immagini continuano a non arrivare, nonostante le richieste e i continui solleciti da parte delle avvocate, le quali arrivano a chiederle pubblicamente mercoledì 13 novembre, una settimana fa, in una conferenza stampa effettuata sul luogo dell’accaduto. Una richiesta necessaria, dato che nei giorni precedenti qualche testata locale aveva di fatto riferito di averle viste.

Il tutto, però, viene smentito il giorno seguente, il 14 novembre, dal procuratore di Verona Raffaele Tito, il quale annuncia che la telecamera posta sulla parte anteriore del tetto della stazione e che guarda da vicino il punto dell’accaduto, risultava spenta nel giorno dell’omicidio. Mentre le altre telecamere sono troppo distanti e le immagini troppo sgranate e quindi poco chiare.

La domanda fondamentale, a questo punto, non può che essere perché non è stato subito reso pubblico il fatto che la telecamera più vicina fosse spenta o rotta? Questa informazione sarebbe potuta emergere il giorno stesso o nei giorni immediatamente successivi all’evento e non a quasi un mese dall’accaduto.

Una tempistica che getta ombre e mille dubbi sulla narrazione che voleva Moussa aggressore e ucciso perché il poliziotto non ha avuto altra scelta. Inoltre, risulta molto singolare che un luogo molto affollato nell’intero arco della giornata, un luogo che molti raccontano come insicuro, abbia solo una telecamera in grado di riprendere in modo chiaro la parte antistante della stazione e che quel giorno, per giunta, fosse spenta.

Una macchina a sostegno della verità

Forse in questa disumana vicenda, l’unica nota che possiamo salvare è che la morte di Moussa non sia rimasta anonima. Moussa, infatti, ha rischiato di morire in modo anonimo, senza un nome, senza una storia, senza una difesa e con una sentenza emessa nei bar e nei commenti dei social come appunto unico colpevole dell’accaduto, come colpevole della sua stessa morte.

Invece, il suo vivere all’interno del Ghibellin Fuggiasco, l’essere seguito dal collettivo del Laboratorio Autogestito Paratod@s, la sua frequentazione con la Ronda della Carità e altre associazioni ha messo in moto una macchina a sostegno della verità che nessuna autorità interessata alle indagini, e non solo, si aspettava. Che Verona stessa non si aspettava.

Dalla formazione appunto del comitato, l’enorme manifestazione avvenuta il week end successivo alla morte di Moussa, che ha visto la partecipazione di quasi cinquemila persone, il tributo con tanto di fiori, foto e omaggi sul luogo dell’accaduto che viene quotidianamente curato e visitato dai cittadini fino alle frequenti conferenze stampa da parte degli avvocati e presidi del Comitato stesso, tutto aiuta a tenere viva l’attenzione sul caso. Attenzione che è arrivata fino a Roma, interessando la senatrice Ilaria Cucchi con la quale si richiederà, come anticipato, un’interrogazione parlamentare.

Un’interrogazione che deve essere un ulteriore faro su questa vicenda priva di immagini e tanti punti oscuri che devono essere chiariti per rispondere a un razzismo strutturale che pervade questa società, a una politica che,con una banalità imbarazzante, arriva a facili conclusioni e che va alla continua ricerca del nemico da combattere. Ma soprattutto lo si deve per rispetto di Moussa Diarra e della verità.

Dato appunto l’assenza di telecamera, il comitato continua la ricerca di testimoni che possano contribuire a farla venire questa verità.

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