Un po’ Fataturchina, un po’ Regina delle nevi, azzurra anche la borsa posata accanto a lei, Paola Barbato si presenta con un’immagine quasi algida di grande impatto. Le sue parole invece sono calde e avvolgenti e affascinano immediatamente il pubblico appena comincia a parlare del suo ultimo romanzo, La torre d’avorio (Neri Pozza, 2024).

É successo recentemente nella nostra città alla libreria Feltrinelli, introdotta dalla scrittrice Alessia Gazzola e anche in Villa Guerrina, a Montorio, intervistata da Claudio De Signori della libreria Jolly del libro.

Barbato vive e scrive a Verona ma ambienta i suoi libri in ogni dove, generando sempre un grande successo. La sua opera spazia tra la narrativa per adulti e per ragazzi – ricordiamo Bilico (Rizzoli 2007), Il filo rosso (Rizzoli, 2010), Mani nude (Rizzoli, 2008), che ha ricevuto il Premio Scerbanenco 2008 e ora trasposto in film sarà presto nelle sale. Infine i recenti La cattiva strada (Piemme, 2022) e Il dono (Piemme, 2023).

Una scena di “Mani nude”, con Francesco Gheghi e Alessandro Gassmann, tratto dall’omonimo libro di Paola Barbato.

Ma non si può parlare di lei senza ricordare che dal 1999 è sceneggiatrice di Dylan Dog, il celeberrimo e amatissimo fumetto ed è stata riconosciuta nel 2013 Miglior sceneggiatrice dell’anno.

Un’amicizia insolita

Assimilare al genere thriller i suoi romanzi pare un giudizio riduttivo che non tiene conto della ricerca documentale alla fonte della sua scrittura, né della precisa caratterizzazione dei personaggi e dei contesti in cui si muovono e il suo ultimo romanzo ne è la prova.

Infatti ne La torre d’avorio sono concentrate molte caratteristiche dei suoi libri, oltre a quelle elencate, come un’estrema leggibilità, una trama accattivante di per sé e un intreccio realistico che genera compulsione alla lettura.

Senza svelare molto per non privare del piacere della scoperta, questo romanzo racconta di cinque donne, ciascuna con una personalità borderline. Si incontrano, non a caso, in una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) e sviluppano un’amicizia che continueranno a coltivare clandestinamente anche dopo la dimissione.

Un gioco al veleno

Ciascuna di loro ha un profilo psicologico particolare e ha commesso un crimine di varia entità che giustifica la reclusione in una struttura di quel tipo. La protagonista, Mara Paladini, nome di copertura per la libertà vigilata, è affetta dalla sindrome di Münchhausen per procura. Una patologia che porta i soggetti a procurare reali sintomi e malattie, soprattutto a familiari e conoscenti, per potersene prendere cura e attirare su di sé, come conseguenza, attenzione, benevolenza e ammirazione.

Mara Paladini è figlia di un farmacista e ha avuto da sempre una particolare affinità con i veleni. Coltiva nel suo giardino alcune piante e ne estrae il veleno per somministrarlo a suo marito e ai suoi figli, ma qualcosa va storto e il suo gioco mortale viene scoperto.

Di  qui si sviluppa un racconto che, pur parlando di azioni deplorevoli, fa emergere un’umanità insospettabile nel mutuo aiuto tra donne legate da una comune esperienza e negli attori del sistema sociale, quali la giudice, l’assistente sociale e persino un addetto alle consegne a domicilio.

L’abilità di Barbato è di immergere chi legge in un microcosmo nel contempo verosimile ed estremo, porta ad amare i personaggi nelle loro défaillance, persino nei loro abissi e nella loro generosità.

Il male come atto necessario

C’è il male, è vero, ma è incorniciato nella normalità della vita e non è mai fine a se stesso, non c’è compiacimento nelle azioni ma l’urgenza di gesti necessari. Con molta sensibilità, e una notevole dose di fantasia, la scrittura di Barbato scende nell’intimo dei personaggi, scava nei loro pensieri e fa vibrare note di sofferenza e desiderio di espiazione.

Forse ognuno di noi, come Mara Paladini, ha la propria torre d’avorio, più o meno manifesta, con uso di scaffolding verso l’esterno, un porto sicuro in cui rifugiarsi che non delude mai.

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