E alla fine arriva Donald Trump. Dopo una campagna elettorale fondata su insulti razzisti, misoginia e disprezzo verso i fondamenti democratici, il popolo americano sceglie lui. Prevale nei voti dei collegi elettorali, la declinazione tutta statunitense della rappresentatività popolare. Meno prevedibile appare la netta vittoria nel voto popolare, attualmente stimata in diversi milioni di voti di differenza, seppur a conteggio ancora non definitivo.

Trump: un grande successo

A giudicare dai proclami di affluenza storica record, Trump è riuscito in almeno uno dei punti della sua campagna: mobilitare le masse verso il voto. Spesso incoerente tra un comizio e banderuola al vento sui temi caldi, nei comizi non è mai mancato il richiamo a creare una tornata elettorale “too big too rig” ovvero troppo grande per gli imbrogli.

Ora, ironicamente, l’uomo che più ha contribuito a erodere le certezze sui fondamenti democratici alla base del processo elettorale americano è proprio colui che se ne avvantaggia. Il nuovo presidente degli Stati Uniti ha ricevuto le congratulazioni della candidata sconfitta Kamala Harris, del presidente uscente Joe Biden e di gran parte del mondo politico internazionale.

Biden: disastro annunciato

La strada per Harris era in salita fin dal rocambolesco turnover con Biden, quasi da film, in perfetta tradizione americana. La storica difficoltà del presidente uscente a comunicare al popolo il miglioramento economico durante il suo mandato è apparsa quanto mai evidente nel famoso disastro del dibattito presidenziale, portando alla candidatura di Harris.

Buone iniziative e misure non si traducono in una linea politica positiva agli occhi dell’opinione pubblica se non vengono comunicate con voce efficace, una lezione che andrebbe imparata a memoria, anche dalle amministrazioni nostrane.

Harris: fuoco che non scalda

La candidata d’emergenza si è ben comportata, ha raccolto un miliardo di dollari in sostegno popolare in pochi mesi e condotto una campagna coerente e intelligente. Forse troppo, verrebbe da minimizzare. Il partito Democratico è, in forma e sostanza, il partito della classe medio-alta, dei professionisti affermati, di chi il sogno americano l’ha vissuto e non ha mancato il famoso ascensore sociale.

Le campagne bipartisan sui diritti, la spinta verso gioia amore e parità come cura al terrore sono stati temi giusti e importanti, ma meno “votabili” della presunta terapia d’urto per l’economia offerta da Trump. Un concession speech è l’ennesima americanata elettorale, un discorsetto del perdente con cui accetta la sconfitta e si congratula con il vincitore, in piena fuffosità retorica. Trump non l’ha mai pronunciato in favore di Biden, mentre Harris ha immediatamente provveduto.

Dice, nel suo discorso, che la battaglia non finisce con il risultato elettorale, richiama i sostenitori a non arrendersi, li invita ora più che mai a darsi da fare, a proseguire nella lotta. Anche se non ha mai veramente chiarito quali e ancor meno come. Nelle foto delle varie testate, il campus della Howard University appare colmo di donne tristi. E per Harris esprimono il volto stesso della sconfitta, dopo le enormi attese su come il genere femminile avrebbe accolto e votato per “una come noi” alla Casa Bianca.

Analisi degli exit polls

Anche in America il voto è segreto ma ci sono alcune peculiarità nel sistema che facilitano il lavoro degli analisti. Per votare è necessario registrarsi, non è automatico, e i cittadini normalmente si schierano come sostenitori di un partito o dell’altro: ben più di una semplice intenzione di voto. Nel 2024 su 335 milioni di cittadini americani, di cui circa 270 milioni in età di voto, ben oltre la metà si sono registrati, anche se i dati numerici sono discordanti.

Esistono poi meccanismi consolidati per i cosiddetti exit polls, ovvero le interviste fatte agli elettori dopo che hanno votato. Si tratta di dati raccolti su grandi numeri di elettori, con campioni studiati per offrire uno spaccato del meraviglioso mondo reale. Le analisi sono condotte da società specializzate, in collaborazione con università e media di valore globale.

Sono e restano stime ma danno una chiave di lettura importante e significativa degli orientamenti, in funzione di ceto sociale, genere, istruzione, occupazione e molti altri fattori. Sulla base di alcune analisi (qui si riportano in particolare quelle di CNN, The Washington Post e Statista) sono evidenti alcuni elementi di valutazione e riflessione.

Come votano le donne

La bella storia di girl power detta e ripetuta in campagna elettorale da Harris si è rivoltata contro la candidata. È vero che le donne (il 50,5% della popolazione ma meno rappresentate tra le elettrici registrate) tipicamente votano Dem ma in questa tornata lo hanno fatto meno che in precedenza: il gap tra i voti delle donne ricevuti da Harris e quelli di Trump non arriva a 10, mentre era +13 quando la candidata era Hillary Clinton e addirittura +15 con Biden. Un uomo.

Harris non è quindi riuscita a portare le donne al voto, specie a suo favore, ma ha smosso almeno l’opinione pubblica sul tema dell’aborto. La perdita del diritto federale all’interruzione di gravidanza, in seguito alla cancellazione della sentenza Roe v. Wade (2016) ha provocato un aumento significativo tra chi sostiene sia un diritto inalienabile, passando dal 50% circa nel 2020 a più di due terzi nel 2024. Peccato però che almeno la metà di chi sostiene la libertà di scelta abbia poi votato per Trump.

I giovani amano il biondo

Eppure Trump ha fatto di tutto per alienarsi il voto delle donne: ha espresso a gran voce opinioni sessiste, è scaduto nella misoginia in più occasioni, ha partecipato a podcast “per soli uomini”. E infatti, nel cluster di età compresa tra 18 e 29 anni, il gender gap nel suo elettorato si colloca a +16 tra maschi e femmine, in aumento rispetto al 2020.

In questa fascia di età, il 58% delle donne ha scelto Harris ma resiste un 40% di giovani donne che ha votato Trump; il 56% dei giovani uomini ha votato Trump e il 42% ha preferito Harris. Stupisce però il miglioramento di Trump in entrambi i generi: quattro anni fa il 41% dei giovani uomini aveva votato per lui (e qui il campaign manager si dà una pacca sulla spalla), mentre le giovani donne pro-Trump furono soltanto il 33%. Piacevoli, per quanto inattesi, risultati.

Bianco, nero, colorato

Un’ulteriore distinzione va fatta tra le diverse etnie. A dispetto della percezione che spesso si ha i cittadini degli Stati Uniti sono per il 60% bianchi, per il 20% ispanici o latini e per meno del 15% afroamericani, con il residuo rappresentato da asiatici (circa 6%) e dalle numerose etnie native (Indiani, Alaska, Hawaii, ecc).

Se le donne nel loro complesso hanno da sempre sostenuto i Dem, questo non vale per le donne bianche, che anche martedì hanno preferito il candidato repubblicano. Di nuovo, dopo il 2016 e il 2020. Harris ha ridotto il gap a soli 5 punti, contro il +11 di Trump nel 2020, ma non è bastato.

Le donne nere, invece, restano la colonna portante del partito Democratico. In questo gruppo elettorale Harris ha vinto di 85 punti, il gap più grande tra tutti gli aggregati misurati negli exit poll. E per la prima volta nella storia due donne nere saranno al Senato insieme, Lisa Rochester e Angela Alsobrooks. Piccole soddisfazioni per Harris.

Nonostante gli attacchi contro l’immigrazione clandestina e le minacce aperte di deportare tutti, i Latini si sono spostati a destra. Nel 2016 schierati per Clinton (+31 punti), nel 2020 per Biden (con uno scarto ridotto ma ancora di 23 punti), nel 2024 è Trump ad aggiudicarsi questo gruppo con un +10 complessivo. Le donne latine hanno scelto Harris ma anche qui lo scarto (24 punti) è in drastico calo rispetto al +44 raccolto nel 2016 da Clinton.

Le reazioni dei media

Una carrellata dei principali media globali e locali lascia un generale senso di delusione per il poco coraggio di Harris nel prendere le distanze da quel Biden passato per la causa di ogni male statunitense, condito di un sospiro di sollievo per una transizione pacifica di potere. Sono molti a far notare che non ci sarebbe stata la stessa serenità a vincitori invertiti.

I Dem sono dipinti come più occupati ad attirarsi le simpatie dei Repubblicani allontanati dalla versione “trumpista” del potere , piuttosto che concentrarsi a non perdere il proprio elettorato. Viene puntato il dito sulle dichiarazioni, troppo poche e troppo vaghe, nei confronti della questione palestinese, che ha lasciato orfana la comunità musulmana negli USA.

Axios aveva coniato il termine di “candidata no-comment” per sottolineare come Harris non fosse in grado di dare risposte ficcanti per la cura del Paese, ma solo programmi abbozzati e frasi fatte. Niente di paragonabile alle certezze granitiche di Trump: finiranno le guerre, energia a basso costo per tutti e dazi dazi dazi.

Il vo(l)to del Paese reale

Da tempo su queste pagine virtuali raccontiamo di una campagna repubblicana improntata all’odio, che sia contro l’inflazione, i diritti o gli stranieri. È evidente che tra l’odio e il poco o nulla, ha vinto l’odio. Tra la visione moderata e le urla sguaiate, ha vinto la rabbia. Facile cadere nell’errore di considerare gli elettori degli ignoranti, non lo sono. Questo voto è semmai specchio di una società sempre più individualista e chiusa, in cui si fatica a conoscere il vicino di casa e a rivolgergli la parola, specie se di colore o lingua diversi dai nostri.

Forse i Dem hanno creduto che l’odio fosse una semplice emozione, da contrastare con i loro grandi sorrisi e richiami alla gioia di essere americani. I risultati però ci dicono che l’odio non è un’emozione estemporanea e sanabile. Non è solo questo, non più. È uno stato d’animo radicato, che permea tutti i ceti e le diverse etnie del melting pot. È diventato col tempo una vera e propria ideologia. E ne stiamo vedendo le conseguenze, in USA come in Europa. E in Italia.

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