Ridurre le spese sociali porta a tragedie
La morte drammatica di Moussa Diarra è anche la conseguenza di politiche che stanno disgregando il tessuto sociale, mettendo gli uni contro gli altri, in una continua guerra fra poveri.
La morte drammatica di Moussa Diarra è anche la conseguenza di politiche che stanno disgregando il tessuto sociale, mettendo gli uni contro gli altri, in una continua guerra fra poveri.
Essere poveri e malati vuol dire stare in un vicolo cieco, dal quale è difficile uscire. Ma se sei anche immigrato e di colore, allora non c’é scampo. È questo il tremendo “cocktail” sociale che ha ucciso Moussa.
Sì, certo, è stato un proiettile, conficcatosi nel cuore, ad ucciderlo. E deve essere fatta chiarezza su quanto è successo. Per questo saranno fatte tutte le verifiche tecniche necessarie, dall’autopsia alle prove balistiche fino ai puntuali riscontri delle innumerevoli telecamere della stazione Porta Nuova, dove è avvenuto il fatto. Ma se non fosse stato povero, malato, immigrato e di colore, Moussa sarebbe ancora vivo.
Sarebbe un errore caricare di eccessiva responsabilità l’agente di polizia che ha sparato. Sì, certo, forse ha sbagliato qualcosa. Magari in quei momenti concitati, ha avuto paura, e non ha saputo gestire al meglio la situazione. Però è la stessa persona che quando siamo in difficoltà ci viene in aiuto, e che affronta tutti i giorni delinquenti incalliti, malavitosi, situazioni complicate e pericolose. L’agente di Polizia è l’ultimo anello di una catena di responsabilità. È quello che scende in strada per affrontare un pericolo, con la sua testa, la sua coscienza e la pistola nel fodero.
Davanti a tragedie come questa non si deve eccedere in semplificazioni per scaricare colpe e responsabilità sull’uno o sull’altro, in genere sulla base di precostituiti schieramenti. C’è, infatti, un contesto dal quale non si può prescindere, frutto di politiche che stanno disgregando il tessuto sociale, mettendo gli uni contro gli altri in una guerra fra poveri.
Da un lato c’è un’accoglienza, che assomiglia di più ad un respingimento mascherato. Chi arriva coi barconi, dopo estenuanti viaggi segnati spesso da schiavitù, torture e violenze indicibili, si ritrova impigliato in un esasperante stillicidio di rifiuti e complicazioni. Non è difficile cadere nella disperazione quando l‘illusione di trovare in Italia una “terra promessa”, si infrange implacabilmente nelle continue difficoltà a rinnovare un permesso di soggiorno, a trovare un tetto sotto il quale ripararsi la notte, e un lavoro spesso in nero e malpagato.
Dall’altro lato c’è una società che vede restringersi ogni giorno di più le prospettive di crescita economica passando da una crisi finanziaria all’altra, e ora anche da due guerre (Ucraina e Palestina) alle porte dell’Europa. Il risultato è, di finanziaria in finanziaria, un persistente sottofinanziamento delle spese sociali quando non veri e propri tagli. Diventa oggettivamente difficile lavorare, anche per gli agenti di Polizia, quando il personale è sottodimensionato, gli stipendi sono inadeguati, la formazione professionale saltuaria. E questo non solo nell’ambito delle Forze dell’Ordine, perché anche nella sanità, nella scuola e nella giustizia la situazione é simile.
In questo contesto trova “terreno fertile” chi alimenta un clima di intolleranza e colpevolizzazione degli immigrati. È una scorciatoia che porta a consenso elettorale, ma che soprattutto evita di parlare delle cause profonde che portano inevitabilmente a tragedie come quella avvenuta alla Stazione di Porta Nuova.
Magari bisognerebbe chiedersi perché l’Italia prima, e l’Unione Europea dopo, hanno rinunciato a gestire la “moneta”, consegnandola alla finanza internazionale. E chiedersi perché alla stessa finanza l’Italia pagherà nel 2024 quasi 90 miliardi di euro in interessi passivi. Poi, per far quadrare i conti, da trent’anni a questa parte i Governi che si sono succeduti, hanno dovuto ridurre gli investimenti e le spese in sanità, istruzione, welfare, accoglienza ed integrazione dei migranti.
Ma è più comoda una narrazione diversa, e trovare invece un capro espiatorio in un qualche gruppo etnico-sociale minoritario. Bertolt Brecht lo evidenziava già negli anni Trenta del secolo scorso, nell’opera teatrale “Teste tonde e teste a punta“. Sappiamo anche come è finita allora, ma dalla Storia continuiamo a non imparare nulla.
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