Passepartout, tutto l’amore per la Francia in musica
Chiara Dal Molin, in arte Passepartout, da anni nei suoi concerti porta il pubblico a conoscere - attraverso la grande chanson francaise - la storia, la società e la cultura di Parigi e dintorni.
Chiara Dal Molin, in arte Passepartout, da anni nei suoi concerti porta il pubblico a conoscere - attraverso la grande chanson francaise - la storia, la società e la cultura di Parigi e dintorni.
Quando l’amore per la musica e la passione per una lingua e una cultura in particolare si incontrano. Chiara Dal Molin, in arte Passepartout, è una giovane musicista e cantante veronese che da anni, ormai, porta il suo pubblico per mano all’interno di un mondo, quello della canzone francese, struggente e suggestivo, ma anche ironico e divertente. Ed è proprio questo il grande regalo che Chiara fa ai suoi fan. Quello di scoprire elementi e caratteristiche della chanson per lo più ignorate e sconosciute.
Dal Molin è laureata in Lingue per Interpreti e Traduttori alla Civica di Milano e in Linguistica all’Università di Verona, grazie a una tesi sulla didattica musicale su allievi DSA dal titolo ‘Music Training and Developmental Dyslexia: a positive approach’. Parallelamente all’attività di cantante insegna proprio lingue straniere e canto e il 7 settembre al Circolo Ufficiali di Verona – con Pier Brigo al contrabbasso, Nereo Fiori alla fisarmonica e Jacopo Delfini alla chitarra – sarà la protagonista assoluta di una serata dedicata proprio alla Francia e a Parigi in particolare.
Chiara, innanzitutto da dove nasce la passione per la musica?
«Sono cresciuta con una nonna che ha sempre cantato tantissimo e mi ha trasmesso questa grande passione. Ho iniziato a cantare a sei anni nel classico coro parrocchiale, insieme ad alcuni compagni. Da lì ho maturato questa grande passione per il canto e la musica, che non mi ha più lasciato. Da adolescente ho iniziato a studiare e il mio percorso è iniziato così.»
E quella per le lingue?
«Parallelamente agli studi accademici musicali mi sono laureata in lingue per traduttori e a Verona ho frequentato la biennale in linguistics, laureandomi con una tesi che parlava di come la didattica musicale influenzasse positivamente i dislessici. La lingua francese, in particolare, mi è davvero cara. Ho vissuto qualche anno in Francia, fra Parigi e Cannes, e da quindici anni parlo correntemente tutti i giorni il francese. Ho terminato i miei studi musicali e a quel punto ho voluto, di fatto, unire queste due mie grandi passioni.»
Passepartout è il tuo nome d’arte. Vuoi raccontarci come nasce?
«Ho voluto ricercare onestamente dal punto di vista musicale chi fossi. Non volevo vendere una cosa, ma volevo che arrivasse al pubblico chi ero e chi sono io. Volevo che arrivasse tutto: il mio amore e anche il mio odio, perché quando c’è un rapporto viscerale c’è tutto, verso la Francia e Parigi, perché a Parigi non c’è solo bellezza, ma anche qualche bruttura o semplicemente difficoltà. Difficoltà di vivere in una città così grande e costosa, tanto per cominciare, non certo alla portata di tutti.
In generale, però, vorrei avvicinare di più la gente alla musica e alla cultura francese. Ci ho messo anche la mia creatività, creando nel tempo un vero e proprio spettacolo teatrale, “Femmes – emozioni di una donna a Parigi” che ho portato al Teatro Camploy alcuni mesi fa e in cui affronto il tema della figura della donna, in musica ovviamente. Ho 35 anni e oggi sono contornata da mie coetanee affermate nel lavoro e nella famiglia e con questo mio lavoro affronto temi come la carriera e la maternità, percorsi a volte scelti ma spesso imposti dalla società. Alla fine, però, la donna in quanto donna è unica perché è lei, alla ricerca della libertà di fare le proprie scelte a prescindere da ciò che sono gli input esterni. Un invito, il mio, a inseguire le proprie inclinazioni e propensioni.»
Come viene percepita e recepita la musica che proponi nei tuoi concerti?
«Se il contesto lo permetto durante la performance delle canzoni io tendo a scendere tra il pubblico, perché rimane sempre in superficie questo mio lato un po’ teatrale e soprattutto la necessità del contatto anche fisico con le persone. Spesso ai miei concerti partecipano persone che conoscono quel tipo di musica, ma ce ne sono anche molte che non la conoscono e che spesso si stupiscono di apprendere come la canzone francese non sia affatto solo quella struggente, impegnata e per alcuni noiosa. C’è anche quello, ovviamente ma c’è anche molto di più. E poi conservo un quaderno che io chiamo “del pubblico”, dove la gente può scrivere liberamente alla fine dei miei concerti quello che vuole. Nei momenti di tristezza lo prendo e lo leggo. Ci sono scritte cose molto carine. Anche sui social molti sono curiosi e mi chiedono, mi scrivono e si dichiarano sempre contenti dello spettacolo che vengono ad ascoltare, perché percepiscono la qualità non solo musicale, ma anche l’autenticità della proposta. Mi fa molto piacere riuscire ad arrivare al cuore delle persone.»
Cosa ti piace di più della musica francese degli anni ’30 del secolo scorso?
«Quando ero giovane e avendo molti amici francesi, ascoltavo le radio web commerciali francesi. Il mio approccio iniziale fu in realtà… moderno. Non c’erano ancora Youtube o altre realtà come Spotify, ma c’era la possibilità di collegarsi online a quelle radio e quindi da adolescente mi ritrovai ad ascoltare la musica che ascoltavano gli adolescenti francesi. Crescendo e maturando ho cominciato a studiare e a documentarmi sugli autori del passato e lì si è aperto un abisso nel quale tutt’ora mi ritrovo e dal quale, probabilmente non uscirò mai. A cominciare dai grandissimi Edith Piaf e Charles Trenet, il mio autore preferito per eccellenza, ma anche tanti altri. Proprio di recente ho partecipato a uno spettacolo ideato da Enrico De Angelis, un concerto-conferenza interamente dedicato a Trenet, di cui sono stata molto contenta. Lo rifaremo nel corso dell’inverno a Villafranca, ma la data non è ancora ufficiale.»
Hai alle spalle numerose collaborazioni musicali. Ce ne vuoi parlare?
«Nel 2019 ho registrato un disco di raccolta di grandi canzoni francesi con Lénaick Gicquel, (dal titolo Au coin d’une rue, ndr) che vinse anche un disco. Ci conoscemmo a un suo concerto, parlando di quello che facevo mi ascoltò e si innamorò del mio progetto e dopo pochi mesi andammo in studio a registrare. A Parigi ho inciso anche alcuni miei pezzi inediti con Sirius, produttore che ha lavorato anche con Zaz.»
Hai qualche sogno nel cassetto?
«Sì, riuscire ad uscire con un album di miei inediti e continuare, al contempo, con i miei spettacoli, magari con una possibile tournée europea. Il 24 maggio scorso sono stata a Parigi al concerto inaugurale di una associazione che si impegna a far entrare la canzone francese come bene immateriale dell’UNESCO. L’evento è stato organizzato dall’associazione Le Pantheon de la chanson in una sala comunale con 400 posti. Hanno partecipato anche i discendenti di tutti i grandi chansonnier francesi. C’erano anche intenditori, giornalisti, altri musicisti, appassionati. Era una bella occasione, ma per molti aspetti mi trovato anche in una sorta di “tana dei leoni”. Ero l’unica cantante italiana a far parte di questa iniziativa e per me questo concerto ha rappresentato una grande conferma del mio percorso musicale. Mi ha presentato al pubblico, fra l’altro, il figlio di Misraki e anche in questo caso sono stata l’unica cantante ad esibirsi a venir presentata sul palco da un diretto discendente, di primo grado intendo, di un grande chansonnier francese. Si era innamorato di una mia versione di una canzone di suo padre ascoltata per caso. Quel giorno mi chiamò e dopo esserci incontrati è nata l’idea di questa collaborazione.»
Il 7 settembre al Circolo Ufficiali cosa deve attendersi il pubblico?
«È un concerto che ha come filo conduttore la storia di Parigi e sarà, di fatto, un vero e proprio viaggio per le strade della capitale francese. Le canzoni verranno introdotte da dei monologhi, che aiuteranno il pubblico a capire il contesto in cui nasce il brano e quindi cosa si andrà ad ascoltare. Cerco di introdurre i singoli brani sia dal punto di vista sociale sia da quello culturale anche con qualche aneddoto curioso. Quello che cerco di proporre, insomma, è un ascolto consapevole. Per me è quasi una missione. È fondamentale che la gente capisca quello che faccio e non cerco trovate commerciali per compiacere il mio pubblico. Al di là della lingua il genere musicale che si ascolta ai miei concerti è molto complesso. Ogni mia canzone è una storia e se non la conosci non arriva.»
Un’ultima domanda sulla situazione musicale italiana e veronese. Qual è la sua opinione?
«Drammatica, soprattutto dopo il Covid. Ti parlo dal punto di vista di un’artista che preferisce fare pochi concerti, ma di qualità. A Verona c’è questo “andazzo” che porta tutte queste tribute band a suonare nei locali o in giro nei festival. Che per carità, ci può anche stare, ma non si sta dando, a mio parere, il giusto valore alle cose. Il problema non è nel musicista, perché è giusto che tutti abbiano la possibilità di suonare e di esprimersi, ma di chi fa la selezione. Spesso viene fatto da chi non capisce molto di musica o comunque predilige un aspetto più commerciale che di qualità. Bisogna invece abbattere il muro di diffidenza della qualità. Non siamo più abituati a un’ampia gamma di proposte e di spettacoli e così, almeno su Verona, ci sono sempre le stesse cose. La cultura musicale, a parte quella relativa alla stagione operistica, non viene supportata.»
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