Ci siamo ormai, le Olimpiadi hanno progressivamente preso spazio e tempo in tutti i media, spuntano app dedicate e i palinsesti televisivi si adeguano a una programmazione da vero tour de force. In diversi articoli e servizi si sente da tempo che questi di Parigi saranno i primi Giochi olimpici a vantare una parità di genere, sia per quanto riguarda gli atleti, divisi equamente tra maschi e femmine, sia per le medaglie, con un pari numero di eventi dedicati alle donne.

Comprensibile la prosopopea, sono tempi in cui essere i primi conta molto, specie se per una volta ci si può accattivare il favore di quella (oltre) metà del cielo. Saranno contente, almeno stavolta, – si saranno detti al Comitato Olimpico – quelle pazze scatenate delle femministe. E invece no. O meglio, insomma. Vogliamo fare un piccolissimo fact-checking e capire se davvero possiamo essere felici.

La strada fin qui

Va detto che si sono fatti enormi passi avanti nella rappresentanza femminile ai Giochi. Basti pensare che il fondatore Pierre de Coubertin, mente illuminata e spesso citata come un faro nella notte dell’etica sportiva, aveva vietato la partecipazione delle donne ai primi Giochi moderni, nel 1896. Nuovo secolo, nuove regole: nel 1900 sono ben ventidue le donne ammesse a competere, in cinque discipline a loro dedicate e nell’edizione del 1952 si sfora il target di un “enorme” 10 per cento.

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La questione femminile è stata da sempre ai margini delle attività e strategie del CIO, che in effetti ha incluso la parità di genere tra i suoi obiettivi ufficiali soltanto dieci anni fa, nel piano strategico rilasciato nel 2014 che prevede infatti “un equilibrio tra i generi” come parte integrante dei Giochi del futuro. Obiettivo sfiorato a Tokyo nel 2021, con le donne pari al 49% degli atleti complessivi, e raggiunto nel 2024, con tanto di hashtag dedicato #GenderEqualOlympics.

Sotto la superficie mediatica

Grattando appena un pochino sotto ai roboanti comunicati stampa, si ritrova però la solita confusione tra termini e concetti. Ancora una volta, l’equa distribuzione numerica tra maschi e femmine nasconde quanto ci sia da fare per raggiungere una vera parità di considerazione, di trattamento, di visibilità. Facciamo qualche esempio.

Foto di Luca Dugaro su Unsplash

Se vogliamo proprio fare le femministe pazze che piacciono tanto al maschio alpha mainstream, non possiamo far a meno di notare che anche la parità numerica non è davvero rispettata: ci sono ancora discipline, come la lotta o la ginnastica ritmica, che sono esclusiva di un solo genere. In altri casi, come la 50km di marcia o la boxe, il CIO è intervenuto modificando le regole per introdurre una quota rosa.

Fatti tutti i conteggi, a dispetto dei proclami, gli eventi – intesi come possibilità di medaglia – riservati agli uomini sono 157, contro i 152 per le donne. Inoltre le donne restano fortemente sotto-rappresentate per quanto riguarda il settore tecnico: preparatori, allenatori e perfino ufficiali di gara sono (quasi) tutti maschi. Creare più medaglie femminili o ridurre quelle maschili è un pezzetto di soluzione, ma ci sono da affrontare temi ben diversi da quelli prettamente quantitativi.

Le altre differenze

Le distinzioni basate sul genere sono ancora presenti e pervasive nel programma olimpico. Semplificando si potrebbe dire che la versione femminile sia intesa come “minore” rispetto a quella maschile: le distanze sono più corte, le categorie di peso sono in numero inferiore, gli equipaggiamenti sono più leggeri o più piccoli.

Esistono eccezioni, come il tiro con l’arco o il badminton che hanno spazi e regole uguali, ma le federazioni internazionali continuano a imporre regolamenti diversi.

Un esempio emblematico è dato dalla ginnastica artistica, dove le differenze riguardano l’età (18 anni per gli uomini e 16 per le donne), gli attrezzi e il numero di esercizi previsti (sei per i maschi e quattro per le femmine). Per non parlare dell’abbigliamento, che prevede un body per le ragazze e pantaloni lunghi o corti per i maschi. Inoltre, le ragazze eseguono l’esercizio al tappeto a suon di musica, includendo elementi tipici della danza; i maschi invece fanno semplici – si fa per dire – capriole e volteggi, peraltro con massimali di punteggio più bassi delle colleghe.

La donna bambolina

Nella ginnastica è in massima evidenza ma pervade ancora quasi tutte le discipline un retaggio maschilista in cui, anche ai “Giochi più paritari di sempre”, la donna viene presentata come un oggetto sensuale e sessuale, dando a suon di regolamenti una maggior enfasi sulla sua femminilità, grazia ed eleganza – mentre per i maschi contano forza, resistenza e potenza.

Foto dalla pagina Facebook delle Olimpiadi parigine.

Anche al di là di norme esplicite, le uniformi disegnate per lo sport femminile sono in genere più rivelatrici delle forme fisiche, in qualche caso in modo esagerato e scatenando le giuste invettive di chi vuole gareggiare in uno sport e non in un concorso di bellezza.

Parità di numero non significa insomma parità di considerazione o equità di trattamento. Finché le donne non saranno adeguatamente coinvolte anche nei centri decisionali delle federazioni e del Comitato olimpico, la vera parità di genere resterà un miraggio.

Non è roba per donne

Proclami a gran voce riguardo quel 50/50 nei numeri non è solo fuorviante. È proprio pericoloso perché potrebbe far pensare che la battaglia sia stata vinta, mentre siamo soltanto all’inizio. Togliere rappresentanza ai maschi per raggiungere la percentuale di equilibrio si traduce in una punizione immeritata per gli sport maschili, in un contesto che di fatto toglie forza e argomenti alla lotta per una vera considerazione equa dei due generi.

Le contraddizioni fin qui evidenziate dimostrano che si deve ripartire dal programma olimpico, da una discussione olistica e aperta sulle vecchie e nuove discipline e da una armonizzazione dei regolamenti nazionali, in modo da garantire parità di condizioni per accedere a qualsiasi sport a tutti gli atleti indistintamente. Le donne non vogliono gare più “facili”, vogliono gare che diano loro la possibilità di mostrare al meglio il loro valore.

E gli animali?

Mentre insistiamo a sognare una vera rivoluzione in ottica paritaria, è facile lasciarsi prendere la mano e immaginare un’Olimpiade in cui si smetta di utilizzare animali. O che almeno cancelli il dressage, una disciplina che, come confermato pubblicamente dal noto video di Charlotte Dujardin (esclusa poi dai Giochi e sospesa dalla Federazione) sono costretti a movimenti innaturali e forzati a suon di frustate.

E già che sono tutti belli riuniti a migliorare il mondo, si potrebbe fare finalmente qualcosa per eliminare anche le bestie in senso ahimé figurato, che ancora agiscono comportamenti inaccettabili e vessatori nei confronti delle atlete e degli atleti. Ma qui stiamo forse sforando nell’Utopia.

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