Dopo i primi cinque appuntamenti, che hanno affrontato di volta in volta il tema lessicale, quello degli spazi e dei modi della violenza e discriminazione di genere, del controllo formale e informale sulla donna nella nostra società, il gesto, la parola e le immagini, e l’oggettività giuridica nei delitti di discriminazione e violenza di genere, oggi parliamo di razzismo, come strumento di occultamento della violenza sulle donne.

Se esiste una questione femminista che merita di essere approfondita, in una società multirazziale quale è la nostra, è quella dell’intreccio tra l’oppressione basata sul sesso e l’oppressione basata sulla razza, l’etnia, la cultura, che possiamo raggruppare, sinteticamente, con il termine “razzismo”. Va osservato, infatti, come l’oppressione non si iscriva nel corpo astratto di una donna universale e a-storica. Il termine inglese “intersectionally” ci rimanda all’intreccio intimo tra sistemi di dominazioni diversi, e ci permette di capire meglio la situazione di donne immigrate o appartenenti ad altre culture, e dunque “razzializzate”. Tale termine è un neologismo, che permette di identificare persone individuate e discriminate per le loro caratteristiche somatiche o la loro posizione sociale di immigrati, senza che si faccia ricorso al concetto di razza, concetto superato sul piano scientifico e ormai inaccettabile sul piano politico.

Tali intrecci possono essere convenienti per superare e influenzare, seppur in modi diversi, l’esperienza delle donne offese dalle violenze: oltre al sessismo queste devono sopportare anche il razzismo, ad esempio di poliziotti e/o operatori sanitari.

Una violenza occulta

Tali plurimi fattori discriminatori rischiano di emarginare queste vittime dalla comunità di appartenenza, tradita dalla denuncia della violenza proposta, e possono incorrere in conseguenze drammatiche quali la espulsione dal paese di immigrazione, laddove il loro permesso di soggiorno sia legato a quello di un marito o di un padre violento.

Tale intreccio assume, al fine della nostra riflessione, un particolare rilievo in quanto può essere un ulteriore modo per occultare la violenza del maschile sul femminile. Va infatti osservato che quando una violenza viene compiuta da un uomo di un gruppo o di una cultura minoritaria, tale violenza è considerata come tipica o esclusiva di quella cultura, e non come tipica del patriarcato. Questo tipo di approccio finisce per “naturalizzare” le altre culture, che appaiono come strumenti monolitici, quasi culture-istinto,da cui gli individui non potrebbero prendere le distanze. Tali aspetti aprono, sotto il profilo del diritto penale, interessanti questioni attinenti la effettiva conoscibilità e rimproverabilità dell’inosservanza del precetto penale in capo allo straniero.

Foto da Pexels di Matheus Natan

Ma attraverso questi meccanismi che ruotano attorno al principio di colpevolezza si finisce, anche, con lo scusare uomini violenti che abbandonando le donne al loro destino.

Pensiamo all’ingente numero di donne lasciate sole e morte in Turchia, in cui uomini appartenenti a una cultura minoritaria , o “ razzializzata”, che avevano commesso violenze gravi nei confronti delle donne dello stesso gruppo, sono stati condannati a pene leggere, con la motivazione che tale violenza era “normale” nel loro paese. Per fare degli esempi in Gran Bretagna un uomo originario dell’India ha pagato solo una ammenda per avere quasi ammazzato la moglie di botte, in quanto “immigrato”. In Germania, un giudice ha ridotto la pena a un uomo che aveva sequestrato, torturato, violentato, e fatto violentare anche da altri la sua ex fidanzata, perché era sardo. Il Giudice tedesco ha infatti ammesso come circostanza attenuante l’appartenenza etnico culturale arretrata, come quella della “Sardegna”.

In alternativa in Italia le violenze contro le donne commesse da immigrati sono enfatizzate dai media e strumentalizzate a fini politici e propagandistici. Non è un segreto che negli ultimi anni abbiamo assistito ad una proliferazione di un discorso pubblico in cui la violenza contro le donne viene presentata come una questione che riguarda solo culture non occidentali, in particolare quella musulmana o islamica.

Basti solo pensare al rapporto tra multiculturalismo e femminismo anche nelle culture islamiche.

La questione del velo

Il dibattito sul punto, intrapreso prima in Francia, poi anche in Italia, talvolta è impostato in maniera a mio modo di vedere semplicistica. Si affronta la questione del velo indossato dalle donne islamiche troppo spesso come riprova di un pregiudizio: quello che vuole la donna occidentale o occidentalizzata libera e quella di religione musulmana invece oppressa.

Foto da Pexels di Elijah O’Donnell

Un tale tipo di impostazione scorda e svilisce, a mio modo di vedere, la libertà di tutte le donne che  talvolta, anche molto giovani, fieramente e autonomamente scelgono di portare il velo, anche al fine di rimarcare il loro diritto alla differenza nella società di immigrazione dove vivono. Sembra paradossale che la religione islamica o la cultura non occidentale sia sempre additata come fonte di violenza contro le donne, scordando il ruolo della religione cristiana, e in particolare di quella cattolica.

Sarebbe sufficiente, a tale proposito, che tornassero alla mente la Santa Inquisizione, la caccia delle streghe, il ruolo ancillare riservato al femmineo nella cultura cattolica e, per venire a momenti più recenti, alle violenze sessuali commesse da religiosi su bambine e bambini e occultate dalle più alte autorità religiose. Il Cardinal Ratzinger, ad esempio, imponeva con la lettera “De Delictis gravioribus” ad ogni prete che fosse venuto a conoscenza di violenze sessuali contro bambini di serbarne il segreto.

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