Dopo i primi quattro appuntamenti, che hanno affrontato di volta in volta il tema lessicale, quello degli spazi e dei modi della violenza e discriminazione di genere, del controllo formale e informale sulla donna nella nostra società e del gesto, la parola e le immagini, siamo arrivati al quinto step, con un focus sull’oggettività giuridica nei delitti di discriminazione e violenza di genere: la dignità della donna, il diritto alla propria identità

Il bene giuridico leso dalle discriminazioni, siano esse razziali quanto di genere, è il medesimo: la dignità umana e il diritto alla differenza ad essere ciò che si è. I soggetti passivi sono sempre privati del diritto ad essere ciò che sono e le donne, in particolare, vengono considerate non persone. Come accade per le persone di colore, per gli ebrei o per gli omosessuali e i transessuali, si assiste ad una sorta di una ghettizzazione o, talvolta, ad una “gerarchizzazione” delle vittime.

Conforme a tale riflessione pare essere quella di una studiosa femminista palestinese che si spinge sino a teorizzare una definizione, con riguardo alle donne nel contesto sociale, inclusiva della cosiddetta “morte in vita”, ovvero della condizione della donna soggetta a continue minacce di morte, che non può liberarsi da tale condizione.

Tale modo di intendere il femminicidio deriva da una argomentazione culturale: quella che il sessismo e le persecuzioni di genere non si riferiscono essenzialmente al rapporto binario uomo/donna o alla relazione tra patriarcato e violenza sulle donne, ma costituiscono la dinamica sociale fondante di un mondo che preserva trattamenti sociali inumani e degradanti. Questa realtà, tuttavia, non si pensi appartenga ad un mondo e ad una società tanto diversi dalle nostre.

Torture

È indubbio che in altri Paesi l’orrore sia ancora più grande, quando si apprende che alcuni comportamenti sono consentiti magari per ragioni culturali o religiose. Si pensi ad esempio quando, come ci spiega Rosalind Miles nel suo riedito “Chi ha cucinato l’ultima cena?”: “l’amiocentasi, pensata per favorire la nascita dei bambini sani, veniva ampiamente utilizzata per gli aborti di femmine indesiderate, ..in altri paesi orientali, mentre le donne lottano per l’istruzione e l’autonomia, giudici maschi legittimano ancora i “delitti d’onore”… le “mutilazioni genitali continuano ad essere il destino di milioni di ragazze africane, nel Kwait alle donne non è ancora concesso il diritto di voto…in tutto il mondo non occidentale, leggi di recente istituzione hanno intrapreso una guerra violenta ristabilendo il principio che la testimonianza di una donna vale meno di quella di un uomo”.

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Queste valutazioni hanno svolto un ruolo determinante per il riscatto delle donne nella zona della America Latina; si pensi, volendo esemplificare, al caso emblematico, di Ciuad Juarez, città al confine tra gli Stati Uniti e il Messico, dove a partire dagli anni Novanta centinaia di cadaveri di donne ogni anno sono stati rinvenuti abbandonati nel deserto con segni di mutilazioni e torture.

In Italia la legislazione penale, pur non avendo inserito espressamente l’identità di genere come motivo di discriminazione punibile, specie dal 1996, con la riforma dei reati in materia di violenza sessuale, e più di recente con l’introduzione, avvenuta con il decreto legge 38/2010, del reato di atti persecutori (il cosiddetto “stalking” ai sensi dell’art. 612 bis cp) pare avere fornito strumenti adeguati, se correttamente utilizzati, per combattere reati per lo più consumati nei confronti delle donne. Pensiamo, appunto, anche, alle mutilazioni genitali (2006), ai reati cd delle nuove schiavitù (1998-2003-2012), al reato che sanziona lo sfruttamento della prostituzione.

Mi chiedo, però, se sia sufficiente la scelta di politica del legislatore di incriminare tali tipi di fatti o se invece la sola previsione non sia sufficiente ad evidenziare il nucleo della discriminazione, di cui spesso la donna è vittima; o se ancora il legislatore colga solo la punta di un fenomeno molto più articolato e complesso, che rinviene le sue radici nella mentalità, nella cultura.

Donna in quanto tale

Donna che, dunque, non si riduce ad essere soggetto passivo di un reato, ma viene colpita dalla violenza discriminatoria in quanto portatrice del fatto “di essere donna in quanto tale” e valutata non tanto in relazione alle sue qualità, bensì in relazione alla sua identità di sesso e di genere.

Forse servirebbe aggiungere alle discriminazioni, che costituiscono l’aggravante della cd legge Mancino, anche quelle fondate sul genere? O forse no ?

A tale proposito si potrebbe obiettare la sufficienza, al fine di sanzionare tale tipo di comportamenti, della circostanza aggravante dei “motivi abietti” o “futili” di cui all’art. 61 cp.

Certo si riproporrebbero tutte le obiezioni politiche, dottrinali e giurisprudenziali formulate quando si affronta la questione della discriminazione fondata sull’orientamento sessuale.

Le obiezioni prospettate attengono al pericolo di una sorta discriminazione al contrario, al pericolo di favorire un stile di vita omosessuale piuttosto che eterosessuale, al pericolo di un diritto penale che sempre più assumerebbe i connotati del diritto penale simbolico o di una introduzione di una circostanza aggravante ad effetto speciale, che impedisca il giudizio di bilanciamento con le attenuanti generiche; si evidenzierebbe altresì il pericolo di sanzioni principali detentive difficilmente eseguibili – con conseguente dubbio sulla certezza della pena-, il pericolo che si incrimini un pregiudizio, che in quanto puro pensiero, seppur non condivisibile, dovrebbe restare confinato nell’area del penalmente lecito per potersi estrinsecare nell’ambito di una libera dialettica delle opinioni (art.21 Cost).

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È certo che è ancora grave che nel 2013 si discuta di discriminazione di genere e vale per questo chiedersi se la sanzione penale, che pur dovrebbe essere extrema ratio, non abbia a volte sorprendenti risultati non solo sul piano della sua funzione rieducativa, ma anche su quello della prevenzione generale.

È bene ricordare che l’entità della pena spesso misura la gravità del fatto, ma non sono convinta della sua adeguatezza, anche in chiave risocializzante (art. 27 Cost), con riferimento ai recenti progetti di legge che individuano nella estrema misura carceraria a vita quella più adeguata a contrastare il fenomeno della mattanza delle donne nel nostro paese. A tale proposito non paiono convincenti le argomentazioni contenute nel recente disegno di legge proposto dalla allora Onorevole Avvocato Bongiorno.

Aderendo a tale impostazione si giunge ad un approccio emotivo e propagandistico, che rifiuta di ricercare le ragioni antiche e profonde della recrudescenza del fenomeno in questo particolare momento storico, di grave crisi economica.

A mio parere la prima immediata risposta che l’ordinamento può fornire alle donne maltrattate, al fine che non venga leso il bene giuridico della loro dignità personale, è la sensibilizzazione, l’informazione e lo sviluppo di centri sociali adeguati alla loro accoglienza; e anche un ripensamento dell’apparato sanzionatorio.

Le donne persone offese di tali reati potrebbero, altresì, trovare forza, anche nel percorso processuale, attraverso la presenza di associazioni od enti, aventi tra i propri scopi statutari la tutela delle donne eterosessuali, bisessuali, omosessuali o transgender, contro ogni forma di atto violento o persecutorio motivato da ragioni misogine o sessiste.

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