Il ritrovamento del corpo di Giulia Cecchettin, ragazza di ventidue anni prima sequestrata e poi uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta, ha riportato all’attenzione l’importanza del linguaggio e dell’uso delle parole all’interno della violenza di genere.
Ancora una volta, tristemente, l’informazione è deflagrata nella becera banalizzazione da talk show, mostrando come le dinamiche che hanno causato l’efferato omicidio di Giulia siano tutte figlie della società patriarcale nella quale viviamo, anche se molti fingono che non sia così.
Prendo come esempio un post su Instagram di Valeria Fonte, dove viene scritto: «È stato il vostro bravo ragazzo, perché tutti i bravi ragazzi sono colpevoli fino a prova contraria». Molti commenti sotto il post però protestano, si avvalgono dei “ma” dei “se” dei “però”. Il sunto è sempre lo stesso e recita il mantra di chi ha la coda di paglia “Non generalizzate, non siamo tutti così”.
Ecco il problema, invece di capire il contesto si instaura una dinamica di possesso maschilista. La battaglia contro la violenza di genere così facendo viene vicariata dal suo essere universale per far spazio a una vittimizzazione tossica, che possiede tutti i crismi del “Non sono razzista ma”.
Una maschera degli orrori
Facciamo un passo indietro. Filippo Turetta, prima del ritrovamento del corpo di Giulia, è stato descritto dai familiari e successivamente dei media come una persona timida, ma anche «un po’ possessivo, come lo sono i ragazzi a quell’età». Questo ultimo virgolettato è una dichiarazione del padre, che come tutti i genitori crede nella narrazione dei figli non sapendo cosa nascondono nel loro privato, nella loro quotidianità. La giustificazione è spesso dietro l’angolo, un nascondiglio sicuro di chi non vede oltre il proprio dito.
Nei cinema di tutta Italia il film di Paola Cortellesi C’è ancora domani mostra bene questo tipo di dinamica, sebbene l’azione si svolga nel 1946. In quel caso la figlia della protagonista è in procinto di sposare un “bravo ragazzo” che all’apparenza è premuroso, timido, salvo poi instaurare una violenza verbale volta alla sopraffazione dell’altro. Le parole hanno lo stesso effetto di uno schiaffo, nonostante possano sembrare più innocue “Perché ti metti il rossetto?”, “Come mai sei vestita così bene?” e via dicendo. Il bravo ragazzo si scopre essere colpevole, e la maschera mette in scena il teatro degli orrori.
Passano gli anni ma la musica suona sempre uguale e quel “non generalizzate, non siamo tutti così” diventa il motivetto per cui non cambierà niente. La popolazione maschile deve imparare a colpevolizzarsi per ciò che succede ogni giorno iniziando una lotta dal basso a partire dal linguaggio, dall’uso delle parole.
Giulia Cecchettin è il caso numero 105 di femminicidio in Italia, uno ogni tre giorni.
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