«Noi in fuga dal Salvador»
Un anno fa il presidente Bukele ha dichiarato guerra alle bande criminali. Ma il Paese centroamericano resta insicuro, povero e sempre meno libero.
Un anno fa il presidente Bukele ha dichiarato guerra alle bande criminali. Ma il Paese centroamericano resta insicuro, povero e sempre meno libero.
«Ci hanno intimato di smettere di cercare nostra figlia scomparsa, per non mettere a rischio gli altri due: lì ho capito che nel Salvador non c’erano più prospettive per noi». A parlare è Julia (nome di fantasia), seduta a un tavolo del bar della comunità “Monsignor Romero”, gruppo cattolico che riunisce i salvadoregni residenti a Milano. Accanto a lei, il suo compagno Carlos resta in silenzio. Ha gli occhi lucidi e si tiene strette le mani per farsi forza: è sua la figlia di cui parla Julia.
La famiglia è arrivata a Milano il 29 gennaio di quest’anno, in fuga dal Salvador, un piccolo Stato del Centroamerica vasto quanto la Lombardia, ma con meno abitanti. Dopo oltre dieci anni di guerra civile, che ha visto confrontarsi i governi conservatori e filo-militari con la resistenza del Frente Martí per la Liberazione Nazionale, le due fazioni sono diventate i principali partiti politici del Paese.
Un sistema bipartitico che Nayib Bukele è riuscito a scardinare nel 2019, vincendo le elezioni con un pastiche populista che intercetta elementi sia di destra che di sinistra e un discorso orientato verso i più giovani, che costituiscono la maggioranza della popolazione. Conosciuto come il «Presidente millennial» o il «Dictador más cool del mundo», come lui stesso si definisce nella sua biografia di Twitter, Bukele è il primo al mondo ad aver adottato il bitcoin come valuta legale, gode del 90% dei consensi e ha ridotto drasticamente i tassi di omicidio dovuti alla violenza delle gang criminali. Ma è anche il presidente che il 27 marzo 2022 ha dichiarato lo stato di eccezione, tuttora in vigore, che ha sospeso le garanzie costituzionali e ha portato all’arresto, in un anno, di più di 60 mila persone, tra cui 21 bambini tra i 12 e i 13 anni.
Julia ha lavorato per 12 anni in una posizione strategica nel ministero del Turismo del Salvador: «Conoscevo tutto il Paese perché riunivo persone, incontravo imprenditori, educatori e soggetti chiave nei municipi turistici». Poi, nel maggio del 2019, con il cambio di governo, è stata licenziata. Il suo posto, così come quello della maggioranza dei dipendenti del governo, è stato occupato da qualcun altro.
«Non avevo più un lavoro e, pur avendo le qualifiche giuste, ero diventata invisibile perché avevo lavorato con il governo precedente. Mentre mi chiudevano molte porte in faccia, ho cercato di tirare avanti con dei lavoretti». Tra questi una collaborazione all’interno di Fomilenio II, un programma per la crescita economica e la riduzione della povertà finanziato dagli Stati Uniti. «Lì ho conosciuto Carlos, che aveva da poco perso sua figlia».
Maria è scomparsa nel 2017 e da allora non si sa più nulla di lei. Da subito il sospetto è caduto sulle maras, le gang salvadoregne che con la violenza controllano il territorio, estorcendo denaro agli esercizi commerciali e ai residenti. Carlos confessa: «Conosciamo molte persone che se ne sono andate anche a causa delle minacce verso le proprie figlie. Dicevano che sarebbero state violentate e non le avrebbero più riviste. Sono arrivati al punto che se a loro piaceva una ragazza, entravano in casa, la portavano via e poi la facevano a pezzi». Da quando è scattato lo stato di eccezione, gli scagnozzi delle maras sono stati arrestati, ma «i capibanda, da lontano, comandano ancora».
Al problema ancora irrisolto delle gang, oggi si è aggiunto il controllo militare. «Ora non ci sono più bande nel mio quartiere», spiega Julia, «ma ci sono due soldati e una camionetta a vigilare. Vederli lì non ti dà sicurezza: penso che in un Paese sicuro potresti camminare senza militari per le strade».
In forza dello stato di eccezione, in qualunque momento gli agenti possono fermare i passanti ed effettuare un controllo dei messaggi sul loro cellulare. In caso di sospetto di un legame con le gang, l’arresto è immediato. «Non voglio parlare male del mio Paese, perché ci sono nata e ci ho vissuto per 40 anni, ma non è quello che voglio offrire ai miei figli».
E la prepotenza delle gang ora si è trasformata in prepotenza dello Stato. «Bukele ha un potere enorme. Alcuni conoscenti che lavorano in finanza mi dicono che capita che lui decida di costruire una strada al posto di un locale o un’attività. Se l’imprenditore si rifiuta, il giorno dopo casualmente si ritrova il negozio bruciato».
Lo stato di eccezione ha cambiato anche i rapporti sociali, minacciando la libertà delle famiglie: «Se per esempio non piaccio a qualcuno», spiega Carlos, «possono segnalarmi alla polizia dicendo che ho legami con le maras. Senza che vengano condotte delle indagini ti portano in prigione. Se dimostri di non avere legami, dopo sei mesi ti fanno uscire. Ma quei sei mesi sono un inferno. Come posso permettere che i miei figli vivano in una situazione come questa, dove chiunque può dire di portarli via».
Dato l’alto numero di arresti (al momento l’1,5% della popolazione è detenuta) il presidente Bukele ha costruito in soli sette mesi un maxi-carcere da 40mila persone e lo scorso 24 febbraio ha postato il video del trasferimento dei primi duemila mareros, nudi, completamente rasati e ammanettati. Il governo non ha rivelato quanto è costata la costruzione del nuovo carcere, ma le stime parlano di un investimento da oltre 70 milioni di dollari. Nel frattempo, i servizi pubblici si dimostrano carenti, dal trasporto locale alla sanità. «Mia madre ha urgenza di un intervento chirurgico allo stomaco», racconta Julia, «ma è in lista d’attesa dal 2020. El Salvador si sta vendendo come “il Paese più sicuro dell’America Latina”, ma che sicurezza c’è nel non avere accesso ai servizi sanitari?».
Il 31% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, e con lo scoppio della pandemia le difficoltà sono aumentate. Il presidente Bukele ha cercato di far fronte alla situazione attraverso bonus e cesti alimentari. «Ma gli aiuti del governo non arrivano a tutti», spiega Julia. «Noi siamo riusciti a ricevere qualcosa solo tramite mia madre, ma i prodotti erano scaduti o di scarsa qualità e non potevamo darli da mangiare ai nostri figli. È stato difficile trovare un modo per arrangiarci».
Il problema è comune a molti salvadoregni, che lottano quotidianamente contro un costo della vita nettamente più alto delle loro possibilità: «Lo stipendio medio nel Salvador per una persona di reddito basso è di 330 dollari al mese, ma il paniere alimentare di base si aggira sui 400 dollari al mese, a cui bisogna aggiungere l’elettricità, l’acqua, internet, i trasporti. Per vivere dignitosamente bisognerebbe guadagnare almeno 800 dollari».
Negli ultimi mesi nel Salvador, Julia e Carlos sono sopravvissuti facendo qualsiasi cosa venisse loro in mente. «Abbiamo cominciato a fare da mangiare per venderlo nel quartiere. Io davo alcune lezioni e Carlos ha trasformato la nostra macchina in un veicolo Uber e accompagnava a casa i dipendenti di un call-center. Nei momenti di pausa cercava sempre di infilarsi nei posti in cui avrebbe potuto esserci sua figlia». Poi, a dicembre, hanno capito che non potevano più restare lì. «Una domenica Carlos ha incontrato un’amica di Maria. L’ha fermata, le ha detto che stava cercando la figlia e non riusciva a trovarla. La ragazza ha risposto: “Smetti di cercarla perché hai altri due figli e a loro potrebbe succedere la stessa cosa”. Quella notte Carlos non ha dormito ed entrambi abbiamo capito che nel Salvador non c’era futuro per i nostri figli».
La scelta dell’Italia come meta è stata suggerita un amico che aveva precedentemente lasciato il Paese per trasferirsi qui. Julia lo conosce da dieci anni: anche lui era un funzionario pubblico, emigrato per motivi politici. «Nell’ufficio del sindaco guadagnava 5.000 dollari, ma qui in Italia, per non farsi trovare, ha mantenuto un profilo basso. Tramite una cooperativa si mantiene facendo le pulizie nei cinema e negli uffici e qualche volta aiuta nei traslochi. Ma se non fosse scappato, si sarebbe fatto migliaia di anni di carcere per tutto quello di cui era a conoscenza».
Con la speranza di fare la cosa giusta per i loro due bambini, anche Julia e Carlos hanno rinunciato a tanto per iniziare una nuova vita in Italia. Oltre alle difficoltà nella ricerca di una casa e di un lavoro, il pensiero è sempre rivolto alla figlia mai ritrovata: «Non ho mai cambiato numero di telefono nella speranza che lei ritorni, ma probabilmente non la rivedrò mai più», ammette Carlos con la voce strozzata.
Le difficoltà socioeconomiche e l’insicurezza dilagante si contrappongono all’enorme popolarità di cui gode il presidente Bukele, non solo nel Salvador ma in tutta l’America Latina. «La gente lo adora», spiega Julia, «è un presidente molto mediatico che punta tutto sull’immagine. È forte sulla rete e abile con la pubblicità. Quando ero al Ministero del Turismo, lui era responsabile della comunicazione e so come lavora: vende le cose per più di quello che sono. Ti presenta la facciata di un edificio come la migliore, anche se l’interno cade a pezzi».
Quando Julia e la sua famiglia sono partiti per Milano, hanno fatto scalo a Madrid. Lì hanno preso un Uber per visitare la Puerta del Sol. «Abbiamo iniziato a parlare con il conducente, che era colombiano. Poi ci ha detto: “Amiamo il vostro presidente, è la cosa migliore che potesse capitare al Salvador”. Io sono rimasta in silenzio e ho mandato giù a fatica, sapendo il motivo per cui ce ne stavamo andando».
Ha collaborato alla stesura Matteo Negri.