L’economia mondiale appare immersa in un caos collettivo spesso descritto come una “guerra dei dazi”. Adottando questo linguaggio bellico e seguendo la narrazione dominante, gli Stati Uniti, sotto la guida di Donald Trump, sembrerebbero essere l’aggressore, mentre il resto del mondo rappresenterebbe la parte aggredita. Ma questa interpretazione è davvero corretta? Consultando un manuale di economia, o anche una semplice ricerca su Wikipedia, emerge che i dazi sono strumenti di protezione, utilizzati per salvaguardare le produzioni interne di un Paese. In questa prospettiva, gli USA non starebbero attaccando, ma rispondendo a una presunta aggressione economica esterna.

Con l’introduzione di tariffe sui beni importati, gli Stati Uniti stanno seguendo una strategia protezionistica per affrontare quello che considerano un mercantilismo aggressivo da parte di altre nazioni. Tuttavia, la politica di Trump si caratterizza per l’elevato livello delle tariffe e per una comunicazione che risulta spesso provocatoria e talvolta inutilmente offensiva. Gli obiettivi dichiarati sono evidenti: riequilibrare la bilancia commerciale e rilanciare la produzione manifatturiera negli USA. Ma i dazi rappresentano davvero la soluzione ideale?

Obiettivi ambiziosi ma illusori

Sebbene legittimi, questi obiettivi sembrano difficili da conseguire affidandosi unicamente ai dazi. Le tariffe, specialmente se elevate e applicate in modo ritorsivo da entrambe le parti, tendono a limitare gli scambi commerciali in entrambe le direzioni, senza garantire un miglioramento del disavanzo commerciale. Inoltre, il rientro delle attività manifatturiere negli Stati Uniti richiede investimenti consistenti e tempi prolungati, che una politica basata solo sui dazi non è in grado di assicurare.

Lo squilibrio commerciale degli Stati Uniti affonda le sue radici nell’apertura dei mercati e nella globalizzazione. Dagli anni ’80, il commercio globale ha registrato una forte crescita, ma è stato l’ingresso della Cina nel WTO nel 2001 a rappresentare un punto di svolta significativo. In Europa, l’adozione dell’euro ha rafforzato le politiche mercantilistiche della Germania, che, attraverso strategie di austerità, hanno condizionato l’intera Eurozona, Italia compresa.

Globalizzazione e delocalizzazioni

Uno degli effetti principali della globalizzazione è la delocalizzazione della produzione verso nazioni caratterizzate da salari più bassi e regolamentazioni meno rigide. Questo processo ha consentito ai paesi industrializzati di accedere a beni a basso costo, spesso realizzati dalle stesse imprese che hanno chiuso stabilimenti in Occidente per trasferirli in luoghi come Messico, Cina o Vietnam. La conseguenza? Un depauperamento del mercato del lavoro nei paesi sviluppati, soprattutto in Stati Uniti ed Europa.

Gli squilibri commerciali tra Stati Uniti ed Europa, pur coinvolgendo economie avanzate, sono stati amplificati da due elementi principali: la sottovalutazione dell’euro rispetto al dollaro e il contenimento salariale nell’Eurozona. Nel 2008, il tasso di cambio medio tra euro e dollaro era di 1,47, con punte fino a 1,60. Dopo la crisi di Lehman Brothers, il valore dell’euro ha subito un calo graduale: 1,29 nel 2012, 1,13 nel 2017, fino a stabilizzarsi intorno a 1,08 nel periodo 2023-2024. Questa svalutazione, superiore al 25%, ha avvantaggiato le esportazioni europee verso gli Stati Uniti, configurandosi come una sorta di svalutazione competitiva. Paradossalmente, l’incremento delle esportazioni europee avrebbe dovuto rafforzare l’euro, ma grazie a una gestione mirata su vari fattori, come i tassi di interesse, la BCE è riuscita a mantenere intenzionalmente la moneta debole rispetto al dollaro.

A ciò si aggiunge il contenimento salariale, attuato prima di tutto dalla Germania e poi, a causa di politiche di austerità, anche in Paesi come l’Italia, che ha ulteriormente favorito la competitività europea a scapito del lavoro interno. Dal 2012, l’Italia stessa ha iniziato a registrare un persistente surplus commerciale, in particolare verso gli Stati Uniti.

Una strategia controproducente?

La strategia di Trump, pur basandosi su presupposti economici validi, rischia di risultare controproducente a causa del suo approccio disordinato e aggressivo. I dazi potrebbero frenare il commercio globale senza affrontare realmente gli squilibri strutturali, mentre la retorica divisiva potrebbe allontanare numerosi partner commerciali.

C’è un evidente bisogno di un nuovo ordine mondiale per affrontare e ridurre gli squilibri economici e commerciali globali, responsabili di tensioni e conflitti internazionali. È fondamentale porre un limite al neoliberismo sfrenato, che ha prodotto enormi profitti finanziari ma anche profondi squilibri a discapito dei lavoratori. Diventa quindi prioritario valorizzare il lavoro, sia manuale che intellettuale, riconoscendolo come l’unica vera fonte di ricchezza reale per i cittadini di tutto il mondo. Solo in questo modo sarà possibile costruire un’economia globale più equa e sostenibile.

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