Un altro punto. Un altro passo. Come quando in montagna si arriva a vista di un rifugio che sembra non arrivare mai, mentre il sudore e il fiatone ti offuscano lo sguardo e le ginocchia sentono tutte le ore di cammino. Passi corti e lenti. Al rifugio ci arriveremo.

Il Verona vede la salvezza, ancora non può sedersi e godersi la vista di una nuova stagione in Serie A, ma ora sa di poterci arrivare, e di arrivarci meglio di com’era partito. Sì, perché la prima parte del lungo viaggio dell’Hellas verso la salvezza non è iniziato con il ritmo costante e paziente del montanaro, ma con la foga e gli inciampi del turista inesperto, tra vittorie sorprendenti, imprese fortunose e imbarcate umilianti contro avversari piccoli e grandi.

Il Verona era smarrito, tra fratture negli spogliatoi e un mister in difficoltà, un ambiente che cominciava a passare dagli sbuffi agli insulti e un passivo di reti a dir poco preoccupante. A salvarlo è stata una valanga iniziata dalla persona giusta al momento giusto, il più difficile.

Dal baratro alla rinascita 

Dopo la sconfitta peggiore della stagione, in casa contro l’Empoli, l’esonero di Zanetti non era neanche quotato dai bookmaker, una notte di attesa sembrava una perdita di tempo dopo i ritiri, dopo le sfuriate in conferenza stampa, dopo un’altra sconfitta. 

E invece no. In quel momento il diesse Sogliano inizia una reazione a catena fatta di fiducia sportiva e personale. Il direttore rinnova la fiducia al mister, il mister ricambia, ascolta, cambia registro. Basta pressing a tutto campo, basta integralismi, si gioca come chi soffre, come chi sa di avere una sola chance. Bassi, brutti, cinici e cattivi come un Dawidowicz a centrocampo. La squadra sente il cambio di passo e nasce nuova fiducia, verso il mister e tra i compagni, è palpabile e riporta il fiato nei polmoni, sempre pesante – ci mancherebbe – ma regolare. 

È lì che cambia tutto. Arrivano i pareggi, bestie sconosciute della prima parte di stagione, e arrivano le vittorie. Arrivano anche le sconfitte ma hanno tutto un altro sapore rispetto alle sberle prese in inverno, la squadra conosce il piano e lo accetta, non scompare mai dal campo, c’è più aiuto tra i compagni e la cattiveria dell’affamato sopperisce agli scarponi da montagna allacciati anche in area di rigore. È finalmente un Verona da salvezza.

Forza e consapevolezza

Il Verona di inizio stagione non sarebbe sopravvissuto ai tanti, tantissimi, infortuni che stanno tempestando centrocampo e attacco, non avrebbe inseguito un pallone sicuro fino all’area piccola sperando in un impossibile errore di Milinkovic-Savic, sarebbe crollato psicologicamente dopo il gol del pareggio arrivato a pochi minuti dal vantaggio, si sarebbe sbilanciato pericolosamente per approfittare della superiorità numerica dopo l’entrata killer di Ricci. Non il Verona di oggi. 

Il Verona di questo finale di campionato ha forza interiore e consapevolezza. Conosce i suoi limiti e quelli del campionato, non si scompone e tiene gli occhi sull’obiettivo. È una squadra sensata e coesa che sa rimediare alle assenze contemporanee di Suslov, Serdar e Tengsted con un polacco dai piedi in suola Vibram, così brutto da vedere che le vie centrali per gli avversari smettono di essere un’opzione.

Dawidowicz al centro del campo, con la fascia da capitano al braccio e una voglia di legnare e tutto quello che passa sotto mano, è il simbolo di un Verona nato all’improvviso da un gesto di fiducia in una notte disperata. Una fiducia che piano piano, senza strafare, sta contagiando anche un ambiente che alza la testa, vede il traguardo e sussurra “ghe la femo”.

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