Dipendenza affettiva e individuazione
Per capire come migliorarsi nelle relazioni è necessario innanzitutto capire cosa siamo e perché. Un processo non semplice, ma che va affrontato e realizzato, fino in fondo.
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Per capire come migliorarsi nelle relazioni è necessario innanzitutto capire cosa siamo e perché. Un processo non semplice, ma che va affrontato e realizzato, fino in fondo.
Tra i termini della psicologia del profondo, ce n’è uno particolarmente complesso da definire, poiché non può essere acquisito né posseduto: individuazione. Possiamo avvicinarci a questo concetto servendoci di alcune metafore. Pensiamo, ad esempio, allo sforzo degli alchimisti nel trasmutare materie non nobili in oro, al processo continuo del “solve et coagula”, separa e unisci. È una ricerca incessante di qualcosa che non può mai essere pienamente raggiunto, ma solo sfiorato. Applicato alla vita psichica, questo processo conduce ad abbracciare tutte le sfaccettature del Sé e a integrare nella coscienza i paradossi della psiche, arrivando così a confrontarsi con la sua complessità: ovvero il fatto che in essa coesistono coppie di opposti (come bene e male, per esempio).
È la tensione tra queste polarità a generare l’energia psichica necessaria per avvicinarsi alla propria autenticità. Risulta quindi fondamentale sperimentare l’ambivalenza umana, non per eliminarla, ma per integrare gli opposti. Negare o cercare di rimuovere l’esistenza, dentro di noi, di parti sgradevoli o spaventose (come il male, ad esempio) significa polarizzare la nostra psiche e concedere autonomia sovrana a queste parti, con il conseguente allontanamento da ciò che siamo realmente. Inoltre, ciò che evitiamo ritorna inevitabilmente sotto forma di comportamenti inconsci (“ciò che butto fuori dalla porta rientra dalla finestra” oppure “la polvere che nascondo sotto il tappeto prima o poi salta fuori”).
Come nei mandala, che raccolgono opposti di ogni genere attorno a un nucleo centrale, anche nel processo individuativo si mira costantemente a un centro autentico. È proprio questa tensione che, se mantenuta, permette di diventare sempre più ciò che siamo, nel bene e nel male, ampliando la consapevolezza.
Essere nel processo di individuazione non implica necessariamente salute ed equilibrio, poiché, ad esempio, esistono persone che non manifestano alcun sintomo nevrotico e tuttavia ignorano completamente il processo individuativo.
Esistono molte esperienze per stimolare l’individuazione, ma tutte passano attraverso la relazione, che, come scrive l’analista Adolf Guggenbühl-Craig, “non è qualcosa di armonioso e piacevole, ma un luogo di individuazione, dove si entra in collisione con se stessi e con l’altro, sia nell’amore che nel rifiuto. È così che si conoscono se stessi, il mondo, il bene e il male, l’alto e il basso […] l’individuazione è salvezza”.
La nostra salvezza dipende dall’individuazione e dalla relazione. È infatti impossibile essere indipendenti da essa, ma è fondamentale distinguere tra dipendenza funzionale e disfunzionale; ovvero una dipendenza che costruisce e una che distrugge. È evidente a tutti che un bambino dipenda dai genitori, ma, se tutto funziona correttamente, se la relazione che si instaura è “sufficientemente buona” (ossia una relazione in cui è possibile sbagliare e avere delle mancanze, ma in cui il genitore è capace di recuperare e offrire un ambiente sicuro e affettuoso), tale dipendenza lo porterà ad acquisire sempre maggiore autonomia, scoprendo sé stesso come individuo separato dall’altro. Questo gli permetterà di tornare a quella relazione sentendosi parte di un sistema interdipendente ed evolutivo, che spinge i suoi membri verso una nuova autonomia arricchita dall’esperienza stessa della relazione.
All’estremo opposto si osserva un avvolgersi su sé stesso di questo processo, che sfocia in un legame caratterizzato da una simbiosi e da un’entropia capace di annullare ogni forma di evoluzione dinamica, gettando le basi per una quasi inevitabile dipendenza affettiva.
Queste dinamiche sono alla base di ciò che lo psicologo britannico Bowlby ha definito “attaccamento”: un sistema di dinamiche psicologiche essenziali per la formazione dei legami e delle relazioni con gli altri. Esistono quattro tipi di attaccamento: sicuro, in cui il bambino esprime i propri bisogni e il genitore risponde in modo adeguato (che non significa perfetto, poiché la perfezione non esiste!).
L’attaccamento evitante, in cui il bambino tende a evitare di condividere le proprie emozioni negative perché percepisce che il genitore non è in grado di tollerarle; l’attaccamento ansioso-ambivalente, in cui il bambino ricerca attenzioni ma il genitore si dimostra inaffidabile e imprevedibile nelle risposte; e l’attaccamento disorganizzato, caratterizzato dall’assenza di modalità adeguate di richiesta e risposta sia da parte del bambino che del genitore.
Tra tutti, l’attaccamento sicuro è l’unico che non mette a rischio lo sviluppo di una dipendenza affettiva. Al contrario, con gli altri stili di attaccamento, il bambino si adatta in qualche modo, poiché la sua paura più grande è quella di non essere amato e, di conseguenza, di morire. Nel tempo si instaura una costante ricerca di soddisfazione per un bisogno che, non essendo mai stato accolto in maniera “sufficientemente buona”, si manifesta sempre più come una ferita aperta. Su questa ferita si innesta, in un circolo vizioso, la necessità di rimarginarla attraverso una relazione con l’altro, che replichi le modalità dello stile di attaccamento vissuto e percepito come l’unico modo possibile per essere amati e non abbandonati. Inconsciamente, si tenderà a cercare persone che, a causa dei loro bisogni insoddisfatti (ad esempio, il bisogno di sentirsi onnipotenti e benevoli), si agganciano perfettamente a questa esigenza, creando così una dipendenza affettiva.
In questo modo si interrompe il processo di individuazione, poiché l’obiettivo principale diventa evitare di perdere “l’oggetto d’amore”. Con il trascorrere del tempo, si smarrisce il senso della propria esistenza, arrivando a pensare di non poter affrontare le difficoltà senza il supporto di qualcun altro. Si rimane così bloccati, immobilizzati dalla paura di perdere ciò da cui si dipende.
Psiche, tuttavia, cerca continuamente di conoscersi e spesso ripropone situazioni “ricorrenti”, quasi a indicare che dobbiamo affrontare ciò che ci disturba, proprio come la lingua insiste sul dente che fa male (e non il contrario! In fin dei conti, per quanto auspicabile, quante possibilità ci sono che una persona convinta della propria onnipotenza riconosca di avere un problema e decida di occuparsene?).
Così, nel momento in cui ci si rende conto di trovarsi, magari per l’ennesima volta, all’interno di una relazione di dipendenza, il messaggio della psiche potrebbe essere: è necessario prendersi cura delle proprie ferite e lavorare su se stessi per poter vivere relazioni capaci di supportare e stimolare ciò che siamo destinati a diventare.
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