Forse Donald Trump riuscirà a fermare la guerra in Ucraina, nonostante i suoi modi bruschi che lasciano perplessi le cancellerie europee e le sue dichiarazioni poco rispettose nei confronti del presidente Volodymyr Zelensky. Tuttavia, se avrà successo, dovremo riconoscerglielo.

Lo stesso Zelensky si renderà conto che le condizioni da accettare non saranno molto diverse da quelle che avrebbe potuto sottoscrivere a marzo 2022 durante i colloqui di Istanbul. Tuttavia, quegli accordi ora sono segnati dal sangue di centinaia di migliaia di morti e feriti, un tragico bilancio che si sarebbe potuto evitare.

L’assenza della UE nella crisi Ucraina

Una significativa responsabilità politica grava sull’Unione Europea, troppo passiva di fronte agli eventi: inizialmente incapace di prevenire il conflitto, e successivamente inadeguata nel proporre soluzioni concrete, se non di pace, almeno per una tregua. Sostenere l’Ucraina nel difendersi è una scelta giusta, ma insistere con una retorica bellicista, alimentando l’illusione che possa ottenere una vittoria militare contro la Russia – una potenza dotata di uno degli eserciti più forti al mondo e di armi nucleari – appare irrealistico e imprudente. Oggi, i leader europei, dopo il cambio di rotta della strategia americana, sembrano smarriti, come un pugile stordito.

È importante sottolineare che la guerra non ha avuto inizio il 24 febbraio 2022 con l’invasione russa dell’Ucraina. Quella data rappresenta l’esplosione di un conflitto latente che si trascinava da anni, alimentato da tensioni politiche a Kiev e da scontri armati a bassa intensità nella regione del Donbass.

Per anni, anziché promuovere un dialogo costruttivo e soluzioni bilanciate alle questioni di confine, le tensioni e i conflitti sono stati alimentati da entrambe le parti. Papa Francesco lo ha espresso in maniera diretta e senza filtri quando, nel maggio 2022, affermò che tra le cause della guerra vi era «l’abbaiare della NATO alle porte del Cremlino».

La nuova gestione della supremazia americana nel mondo

La Russia si presenta come una potenza imperiale regionale, oggi più vicina agli ideali zaristi che a quelli sovietici. Gli Stati Uniti, invece, incarnano una potenza imperiale globale, determinata a esercitare il proprio dominio attraverso l’imposizione delle sue regole e della sua valuta. Trump, con l’energia di un ciclone, sta cercando di ridefinire il modello con cui gli USA gestiscono la loro supremazia globale.

Trump non è certamente un pacifista; al contrario, esorta i suoi alleati ad aumentare le spese militari e auspica un Occidente che utilizzi la propria forza militare come principale strumento di deterrenza. La sua visione della democrazia è fortemente presidenzialista, con un approccio in cui chi vince le elezioni esercita il potere in modo diretto, senza interferenze da parte di Parlamenti o Magistratura che possano contestare i suoi ordini esecutivi.

Trump punta a governare eliminando gli ostacoli rappresentati dalla burocrazia, che spesso rallenta e diluisce le sue decisioni. Considera il deep state un freno al pieno esercizio dei poteri presidenziali. Per questo motivo, insieme a Elon Musk, suo consigliere alla Casa Bianca, ha creato il DOGE (Dipartimento per l’Efficienza Governativa), con l’obiettivo di tagliare le spese federali e avviare una profonda riorganizzazione della macchina burocratica americana.

Donald Trump durante la campagna elettorale a Glendale, Arizona, Gage Skidmore from Surprise, AZ, United States of America, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons

Cina e BRICS, i nuovi antagonisti degli USA

Nella politica internazionale, Trump identifica la Cina come il principale rivale, considerando il suo crescente PIL, che potrebbe superare quello degli Stati Uniti nei prossimi anni. Questo risultato è attribuibile ai significativi progressi economici, tecnologici e alla strategia di controllo delle risorse naturali, rendendo la Cina un attore chiave in Asia orientale, Africa e Sud America. Ancora più preoccupante per gli Stati Uniti è la crescente influenza della rete costituita dai Paesi del gruppo BRICS, che riunisce Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa.

Di recente, i BRICS hanno accolto nuovi membri, tra cui Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran, mentre numerosi altri Paesi hanno manifestato interesse a unirsi. Questi Stati, caratterizzati da una rapida crescita economica e abbondanti risorse naturali, stanno contribuendo a ridefinire il ruolo del gruppo. Da semplice alleanza economica, i BRICS stanno evolvendo verso una vera organizzazione intergovernativa con obiettivi geostrategici ben definiti, mirata a creare un sistema commerciale e finanziario alternativo al dominio del dollaro.

Verso la riabilitazione della Russia

L’evoluzione del conflitto in Ucraina e le sanzioni imposte dall’Occidente hanno avvicinato ulteriormente la Russia alla Cina, rafforzando indirettamente il progetto dei BRICS. La pace non è ancora realtà, ma appare inevitabile, poiché anche la Russia è ormai esausta dal prolungarsi della guerra. Quella che inizialmente doveva essere un'”operazione speciale” risolvibile in poche settimane si è trasformata, dopo tre anni, in una fonte di gravi difficoltà interne.

La conclusione del conflitto in Ucraina e il reintegro della Russia nello scenario internazionale sembrano rappresentare il primo passo di una strategia statunitense mirata a indebolire il legame tra Mosca e Pechino, oltre a frenare il consolidamento di un coordinamento tra economie alternative all’egemonia occidentale.

Spetta ora all’Unione Europea rispondere alle sfide della nuova realtà geopolitica emergente in Europa e nel mondo. Invece di inseguire spese insostenibili per gli armamenti o aspirazioni illusorie di potenza militare, l’UE ha l’occasione di consolidare il proprio ruolo di leader globale nei settori della cultura, della democrazia, della ricerca, del dialogo e della promozione della pace tra i popoli.

Tuttavia, risulta difficile immaginare che questa possa essere la direzione che sceglierà di intraprendere.

Foto da Unsplash di Jorgen Haland

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