Di solito con i terroristi non si tratta, almeno non ufficialmente, e se si tratta, per salvare gli innocenti, lo si fa in segreto. Questa regola però non vale per i terroristi mediatici, che hanno un largo seguito e amano trasformare lo scempio in una celebrazione.

Come già successo in precedenza, il recente accordo fra lo stato di Israele e il gruppo terroristico Hamas per la liberazione degli ostaggi rapiti il 7 ottobre 2023 si è trasformato in una macabra messinscena.

La sfilata delle consegne fatte a contagocce era iniziata con le soldatesse israeliane. Le ragazze che monitoravano la frontiera sono state rapite in pigiama e travestite con una finta uniforme per la consegna. Loro sono quelle più “fortunate”: erano solo costrette a fare da schiave domestiche nelle famiglie benestanti di Gaza, ma camminano con le proprie gambe e riescono a sorridere, sfidando gli sciacalli pronti a sbranarle.

Poi, in un’escalation di orrore, sono stati rilasciati gli uomini. I loro volti scarni e gli occhi affossati ricordano quelli dei prigionieri dei campi di concentramento; solo che la loro liberazione non è avvenuta dopo la sconfitta dei loro aguzzini. Anzi: il loro rilascio è avvenuto in cambio della libertà a centinaia di omicidi processati e condannati, pronti a fare nuove stragi, prendere nuovi ostaggi, in una spirale di violenza di cui non si vede la fine.

Ora i terroristi si sentono vincitori, perché, nonostante tutto il dolore che hanno inferto al loro popolo, hanno ottenuto ciò che bramavano: la visibilità, i finanziamenti, il sostegno ampio sia nei paesi del Medio Oriente che in Europa.

Hamas detta legge

Onde mantenere alta questa visibilità, per ogni gruppo di ostaggi si allestisce un nuovo palco in una zona diversa di Gaza. Così Hamas ribadisce il pieno controllo sul territorio. Finché erano in corso le azioni militari, i miliziani preferivano indossare abiti civili. Ora hanno ritrovato le loro divise, ma non il coraggio di mostrarsi a viso aperto. Esultando per ciò che loro considerano una vittoria, mostrano che hanno energia e risorse per stampare i cartelloni per decorare la scena o i “certificati” da dare in mano agli ostaggi liberati.

Possono permettersi anche di non osservare gli accordi, che prevedevano la discrezione al momento della consegna. Sono liberi di agire, perché gli israeliani, pur di poter riavere gli ostaggi al più presto, chiudono un occhio sui dettagli. Perciò, i terroristi si sentono autorizzati a fare nuovi passi verso l’abisso, allargando gli spazi di ciò che la società occidentale considera inaccettabile e che ora, invece, è trasmesso senza filtri e reticenze.

Il macabro palco

Giovedì 20 febbraio quattro bare, celate da una tenda, sono state issate sul palco. Attorno, oltre alla solita congerie di militanti di Hamas che si pavoneggiano con le armi in mano accanto alla salma di un neonato, c’era una fitta platea di spettatori scelti non a caso. Adolescenti desiderosi di vedere i cadaveri dei propri nemici accanto ai “veterani”, rilasciati dalle prigioni israeliane in cambio degli ostaggi precedenti. Gente esperta nell’organizzazione degli atti terroristici che non vede l’ora di tornare ad agire sul campo. Gli accordi prevedevano che fossero banditi da Gaza, ma l’Egitto non li ha voluti.

Quindi, in violazione dei patti, i liberati sono tornati a Gaza, a godersi lo spettacolo. Sul fondale, un cartello raffigura i quattro volti sorridenti di Shiri, Kfir e Ariel Bibas e di Oded Lipshitz. Erano sporchi di sangue che colava su di loro dalla bocca di Netanyahu, raffigurato come un caricaturale vampiro. Quest’immagine evoca la famigerata accusa di sangue antisemita, e cerca di ovviare la verità. La causa primaria della morte di questi cittadini israeliani sono quegli abitanti di Gaza, non appartenenti a un gruppo militare, che li hanno rapiti e consegnati a Hamas, che ora esultano attorno al palco.

Ogni dettaglio del macabro scenario è stato ben calcolato. Hanno chiuso le bare, ma si sono tenuti le chiavi. Un altro “tocco di classe” che sfiora la profanazione è l’aver riempita le bare con gli slogan propagandistici che celebrano Hamas fuori e dentro, e l’aver sbagliato a mettere le foto sulle bare dei bambini.

Il destino della famiglia Bibas

Queste bare custodivano le spoglie di quattro vite esemplari. Ariel e Kfir erano solo due bambini dai capelli rossi e dalle guance rosee, che guardavano il mondo con un sorriso fiducioso. Per la società israeliana sono diventati il simbolo della speranza che non deve tramontare, di innocenza che non può essere calpestata.

I loro sorrisi non saranno dimenticati, come anche lo sguardo terrorizzato di Shiri Bibas. Circondata da uomini armati, la cercato di proteggere i suoi bambini in un abbraccio. Lo sguardo pieno di orrore non sfugge all’obiettivo di un giornalista palestinese, che riprende il tutto a distanza ravvicinata, ben contento di documentare un crimine contro l’umanità, vietato dal diritto internazionale e dalla Convenzione di Ginevra.

Un collage di foto raccoglie immagini di Shiri Bibas con i piccoli Yarden e Kfir, e il loro cane Tonto, ucciso durante l’assalto. La donna e i suoi figli sono poi stati portati a Gaza separatamente dal marito Yarden, unico sopravvissuto e rilasciato lo scorso 1° febbraio.

Il 7 ottobre del 2023 la famiglia Bibas è stata decimata: i nonni, immigrati entrambi dall’America Latina, bruciati nei propri letti; il cane freddato subito. Yarden, il padre dei due fratellini, era uscito dalla stanza di sicurezza, esponendosi per distrarre gli attaccanti, ma l’hanno menato e portato via.

Hamas ha lasciato andare Yarden Bibas il primo di febbraio, dopo 484 giorni di prigionia. Questo uomo, ridotto all’ombra di sé da torture fisiche e psicologiche, appartiene a una stirpe importante. Fra suoi antenati c’è il rabbino Yehuda Bibas, un precursore del sionismo religioso. Attivo nell’ Ottocento, era uno dei primi rabbini a invitare i fedeli a tornare in terra d’Israele, a rinfoltire la presenza ebraica. In adempimento a queste idee Bibas emigrò in Terra Santa, a Hebron. Prima di morire ha fatto in tempo a fondare una scuola religiosa dotata di una grande biblioteca.

Nir Oz, un’oasi di dialogo e pace

Non a caso i suoi discendenti hanno scelto di vivere proprio a Nir Oz, un kibbutz nel Negev. Nato da eventi difficili, ora è legato indissolubilmente alla memoria del massacro. Andarci a vivere era una scelta coraggiosa, pagata a caro prezzo. Nel 1952 c’è stato un primo tentativo di creare l’insediamento. Cinque anni dopo, noncuranti del fatto che il primo nucleo è stato ucciso dai fedayìn, un nuovo gruppo si è insediato lì. Col tempo Nir Oz è cresciuto: circa trecento persone hanno scelto di vivere accanto ai gazawi, ispirati dall’ideale di convivenza pacifica.

Nir Oz era diventato un esempio di agricoltura a basso consumo di acqua. Erano specializzati in asparagi e patate. Per raccoglierli era meglio lavorare di notte: di giorno i palestinesi sparavano a vista sui contadini. Per impedirlo, i kibbutznik hanno piantato una folta fila di eucalipti. Questo era il loro scudo: gli alberi. Questi erano i metodi di difesa, la logica del pensiero dei pacifisti di Nir Oz.

Oded Lifshitz, pacifista scomodo

Se i fratellini Bibas erano il futuro di Nir Oz, Oded Lifshitz, il quarto ostaggio restituito morto, ne era la storia vivente. Aveva diciassette anni quando si era unito al gruppo dei fondatori del kibbutz. Dopo anni passati a coltivare la terra e a gestire il collettivo, si era distinto nella sua carriera di giornalista investigativo. Aveva il coraggio di criticare i difetti dei kibbutz e difendere i beduini e i palestinesi.

Pacifista convinto, una volta in pensione Lifshitz collaborava con “The Way to Recovery”. Questa Ong portava i palestinesi bisognosi di cure mediche a fare terapie gratuite negli ospedali israeliani. Con sua moglie Yoheved, Oded portava i gazawi a fare visite mediche, fino al giorno in cui quelli sono venuti a visitarli a casa loro, a Nir Oz, sequestrando il patriarca di 83 anni e sua moglie di 85, per fortuna rilasciata dopo poche settimane.

In piazza Ostaggi a Tel Aviv i pannelli riportano le foto dei prigionieri in mano a Hamas. Foto di dumbo711, Flickr.CC BY-NC-SA 2.0.

Ritorno dalla prigionia

Il 20 di febbraio i quattro corpi, profanati da tanti sguardi gioiosi durante la macabra cerimonia, sono tornati a casa. O così ci hanno fatto credere. I responsabili della Croce Rossa hanno firmato i documenti. La parte israeliana ha rilasciato il numero convenuto dei criminali dalle proprie prigioni. Le stazioni televisive israeliane hanno scelto di non trasmettere la cerimonia inscenata da Hamas.

Ma il giorno dopo sono arrivate le notizie che hanno aggravato l’agonia di questo lutto. La perizia medica ha dimostrato che la salma femminile restituita non appartiene né a Shiri Bibas, né ad altre donne ostaggio. È semplicemente una donna, vittima anch’essa dello sporco gioco di Hamas. “Ci siamo sbagliati”, – hanno confermato i terroristi. Hanno chiesto indietro la salma della ignota malcapitata, e a quanto pare hanno subito ritrovato quella giusta. Alla luce di questo “errore” diventa più chiaro il perché del lucchetto sulla bara.

Poco dopo questa notizia già di per sé grave, è arrivata quella relativa all’analisi forense sui corpi dei piccoli: i due fratellini sono morti strangolati a mani nude, e poi colpiti con le pietre, a distanza di un mese dal rapimento. Quando il capo di stato maggiore israeliano ha comunicato al padre i risultati dell’autopsia, Yarden Bibas ha chiesto di diffondere il più possibile questi risultati. Vuole che il mondo sappia tutto, in dettaglio, che condivida il suo lutto e reagisca.

Perché se il male che hanno subito i suoi figli non verrà punito, ci saranno altre anime innocenti martoriate. Il male conquista tutto lo spazio che gli lasciamo, permettendogli di propagarsi nel vuoto creato dall’ignavia, dall’ignoranza e dalla miope fascinazione per il culto della morte.

E finchè il male non verrà fermato, continuerà a giocare con le nostre speranze, con la nostra pietà, trasformando il rilascio degli ostaggi in un infinito e macabro spettacolo, allettante per loro e orripilante per noi.

©RIPRODUZIONE RISERVATA