Molti si stracciano le vesti di fronte alla applicazione dei dazi, che, dopo le esternazioni del presidente Usa Donald Trump sembrano tornare in auge. In realtà i dazi sono sempre stati un normale e diffuso strumento di politica commerciale, utile per chi li applica a proteggere le proprie produzioni e manifatture.

Tuttavia, poiché tutti i Paesi sono generalmente sia importatori che esportatori di beni di vario tipo, i dazi possono rivelarsi un’arma a doppio taglio, suscettibile di ritorsioni. Per questo motivo, di norma vengono applicati in modo moderato, selettivo e temporaneo.

I dazi del Paese leader del liberismo economico

È evidente che i dazi sono malvisti dalle economie più forti, dove prevale l’esportazione di beni, mentre sono invece apprezzati dai Paesi tecnologicamente meno sviluppati, che li utilizzano per proteggere le proprie industrie in fase di crescita. Ma perché i dazi sono così fortemente sostenuti proprio dagli Stati Uniti, Il Paese del liberismo economico per definizione, che con la propria moneta, il dollaro, domina l’economia e la finanza mondiali?

Il problema risiede in una bilancia commerciale fortemente negativa, con uno sbilancio persistente fra esportazioni ed importazioni che ha raggiunto i 1.200 miliardi di dollari l’anno, pari al 4,4% del Pil. Uno squilibrio che metterebbe in ginocchio qualsiasi altro Paese nel mondo, con ripercussioni sulla moneta, sul costo del debito pubblico e sul rischio di default.

Tuttavia, ciò non può avvenire, almeno per ora, per gli Usa, finché il dollaro rimarrà la moneta di riferimento internazionale e la potenza militare americana continuerà a dominare. Gli Stati Uniti, grazie alla loro egemonia, possono sopportare tale squilibrio commerciale, che a livello interno però non è esente da pesanti problematiche sociali.

Le big-tech ma anche la crisi delle industrie manifatturiere

Gli Usa sono il Paese di Google, Amazon, Apple, Facebook, Instagram, WhatsApp, Microsoft, Tesla e Nvidia, che insieme capitalizzano in Borsa circa 18mila miliardi di dollari, pari a più della metà del Pil americano. A titolo di confronto, il Pil italiano ha raggiunto nel 2024 circa 2.200 miliardi di euro.

Tuttavia, a questa realtà straordinaria si contrappone la crisi che, dagli anni Novanta, complici globalizzazione e delocalizzazioni, ha colpito molti settori industriali ad alto contenuto di manodopera. Non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa, interi comparti della siderurgia, meccanica, elettromeccanica e tessile si sono svuotati, non reggendo la concorrenza di produzioni estere in Paesi con bassissimi costi del lavoro e spesso scarsa attenzione ai diritti ed all’ambiente.

Dalla steel-belt alla rust-belt

Sono stati soprattutto i lavoratori di questi settori, costituiti prevalentemente da operai e impiegati a medio-basso reddito, a essere colpiti. Disoccupazione e degrado si sono estesi nella vasta area manifatturiera degli Usa, nota in passato come “steel-belt” (cintura d’acciaio), oggi ridefinita “rust-belt ” (cintura di ruggine) a causa della desolazione di fabbriche chiuse e città svuotate.

Il Maga (Make America Great Again) di Trump è rivolto a questi cittadini americani, molti dei quali sono immigrati, e rappresenta una parte significativa della sua base elettorale, che ha visto svanire nel tempo il sogno americano di sicurezza economica e benessere.

Il suo programma mira quindi a riportare le manifatture negli Stati Uniti, come ha confermato recentemente nel suo intervento al World economic forum di Davos, dichiarando: «Il mio messaggio è molto semplice: venite a produrre in America e vi daremo le tasse più basse di qualsiasi Paese sulla Terra. Se non producete da noi, allora molto semplicemente dovrete pagare dazi».

Il presidente americano avrebbe potuto fare scelte diverse rispetto all’imposizione dei dazi per ridurre lo squilibrio commerciale. In accordo con la Fed, avrebbe potuto indurre una svalutazione del dollaro rispetto alle altre monete, favorendo in tal modo le esportazioni americane e riducendo le importazioni. Tuttavia questa sarebbe stata un’azione non selettiva e strategicamente non allineata con la politica statunitense di predominanza internazionale.

Dazi selettivi come arma politica

In alternativa, avrebbe potuto attuare, come ha fatto purtroppo l’Europa per aumentare le esportazioni, politiche di austerità interna svalutando i salari. Ma Trump non è stupido: impoverire i cittadini americani e suoi elettori, per ridurre le importazioni sarebbe stata una pessima idea. L’intervento sui dazi gli consente invece di agire direttamente sullo squilibrio commerciale e di utilizzarlo come arma politica nei contatti bilaterali. Inoltre gli permette di operare selettivamente applicando i dazi ai Paesi con cui gli Stati Uniti hanno un maggiore deficit commerciale, ovvero Canada, Messico, Cina ed Unione Europea.

L’Italia e l’Europa intera subiranno alcune conseguenze dalla politica dei dazi americana, ma meno di quanto si teme. Sarebbe tempo invece che l’Unione Europea, esportatrice netta di beni, riequilibrasse autonomamente il proprio commercio estero. La strada maestra non può che essere quella degli investimenti per ridurre il gap tecnologico con gli Usa e la Cina, ed una crescita del Pil trainata più dall’aumento di salari e stipendi che dalle esportazioni.

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