C’è un passaggio in Moby Dick di Herman Melville in cui il protagonista Ismaele descrive la sua paura per il “Leviatan”, dovuta in parte al suo colore bianco:

«È forse ch’essa adombra con la sua indefinitezza i vuoti e le immensità spietate dell’universo, e così ci pugnala alle spalle col pensiero del nulla, quando contempliamo le profondità bianche della Via Lattea? Oppure avviene che nella sua essenza la bianchezza non è tanto un colore e nello stesso tempo la fusione di tutti i colori».

In Nosferatu di Robert Eggers a mancare è il colore bianco. Si intende, ovviamente, in senso figurato dato che la fotografia (candidata ai Premi Oscar) privilegia giustamente le ombre, capaci di mascherare per buona durata del film l’aspetto del conte Orlok. Perciò, per quanto mi riguarda, in Nosferatu a venir meno è l’elemento dell’ “Indefinitezza”, cioè del dubbio, della tensione dovuta a un male sfuggente, non conosciuto che abita, però, dentro tutti noi. E in un film come quello di Robert Eggers, che cerca di lavorare di sottrazione nei confronti della figura del vampiro, appare un controsenso.

Il trailer di Nosferatu

In The VVitch, l’esordio del regista, bastava la visione di un bosco a creare tensione, a insinuare dubbi nella mente dello spettatore. A creare, dunque, pensieri e timori riguardo alle immagini che si stavano vedendo. Una visionarietà non appariscente che seduceva un male non esibito ma supposto. Era la quotidianità a far nascere lo sconforto nei nostri occhi e in quelli della protagonista. Rivelando, perciò, che il vero orrore popolava le mura domestiche e che la liberazione da esso risiedeva in un epifania stregata. Un concetto bellissimo e, soprattutto, audace.

Nosferatu a chi è rivolto?

Nosferatu, invece, nel suo tracciare una parabola sul desiderio sessuale femminile (leggasi: indipendenza) represso dalla società capitalistica nascente – il marito della protagonista la “vende” per un importante affare immobiliare – finisce per essere un horror di routine, costruito bene, per carità, ma dove a imperare è la meccanicità di causa ed effetto.

Il conte Orlok/Nosferatu

Non esiste in Nosferatu l’elemento comune che mortifica i nostri sentimenti, che annienta le nostre difese, proprio per “colpa” della natura del film. Il conte Orlok, nel suo essere spettrale, rappresenta una figura demoniaca più esibita che realmente inquietante.

Non è un caso che il leitmotiv ricorrente del film è la frase «He’s coming/Lui sta arrivando» proprio per ribadire, qualora ce ne fosse bisogno, che la minaccia del conte Orlok è alle porte. Come se le immagini mostrate non fossero autosufficienti. Come se Eggers non credesse veramente alla sua creatura, a ciò che rappresenta.

L’elaborazione della matrice originale – il Nosferatu di Murnau del 1922 – e della bellissima rivisitazione da parte di Werner Herzog del 1979 di conseguenza non avviene. Questo non rappresenterebbe un guaio se l’interesse del regista fosse stato quello di realizzare un’operazione filologica per i due film citati, ma diventa tale quando l’inserimento di nuovi elementi – per l’appunto la repressione del desiderio di Ellen – appare posticcia e senza una vera e propria critica concreta alla società dell’epoca.

In Nosferatu non si pongono interrogativi di sorta, non c’è problematizzazione, ma si costruisce solo una lunga strada per l’arrivo di un male che viene ben presto inghiottito dal mare sconfinato di prodotti simili.

La balena bianca nuota altrove.

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