David Lynch, l’oscuro fascino del desiderio
Ci ha lasciato ieri un grande cineasta, un maestro dell'inafferrabile, autore di opere enigmatiche, che rimarranno nella storia della settima arte.
Ci ha lasciato ieri un grande cineasta, un maestro dell'inafferrabile, autore di opere enigmatiche, che rimarranno nella storia della settima arte.
C’è un breve video su YouTube che raccoglie una serie di dichiarazioni di David Lynch riguardo il ruolo del dolore nell’arte. Il regista spiega come le due cose siano complementari. E come l’arte rappresenti una forma di escapismo dalla morte. Per andare oltre l’ignoto. Per scoprire un aldilà che ha il fascino di un bosco al chiaro di luna dove i gufi non sono quello che sembrano. Il cinema di Lynch non ha mai avuto la presunzione di fornire risposte su grandi temi o i massimi sistemi. D’altronde lui stesso disse: «Se voglio mandare un messaggio vado all’ufficio postale.»
Non è stato, dunque, un cinema rivolto a chi si accontenta della comodità del reale. Perché chi si accontenta non gode. Lynch, invece, filmava il desiderio. E l’oscura seduzione di un mondo che appartiene solamente all’inconscio di tutti noi, lui, è stato in grado di metterlo in scena. Piegando il cinema al proprio volere e reinventandolo cavalcandone le mutazioni del linguaggio. Le soggettive erano occhi che scrutavano ammalianti tende di velluto blu, così invitanti eppure così pericolose. I dettagli di occhi sfuggenti e di bocche carnose carpivano la nostra sete di eros.
La pellicola bruciava verso altri pianeti. Il digitale si addentrava nella sintassi binaria della tecnologia. Strade perdute facevano perdere le proprie coordinate dentro l’impero della mente. Immagini e suoni che scorrono nel tempo e sublimano un’esperienza che può appartenere esclusivamente al cinema. “Ritratti in movimento imprigionati su celluloide”.
Al buio. All’oscurità che ha sempre abitato il suo mondo. Forse, per questo, ieri sera l’altro mondo si è fermato. Perché nessuno, come David Lynch, è stato in grado di metterci sotto il cielo delle costellazioni dei nostri pensieri più profondi. Come un viaggio attraverso lo specchio dell’Orfeo di Jean Cocteau. Un cinema rivolto a tutti, accessibile e inafferrabile.
“What year is this?” è l’ultima frase pronunciata da Dale Cooper alla fine di Twin Peaks. Poi l’urlo disperato di Laura Palmer. Ancora una volta il dubbio.
Cos’è reale? Cos’è la finzione?
Il cinema. David Lynch.
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