La rielezione di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti e la sua nomina di Elon Musk a consigliere speciale hanno messo in evidenza nei media e sui social l’importanza del controllo dell’informazione sulla comunità sociale e, per chi guarda oltre il proprio contesto, anche sulla democrazia come l’abbiamo finora conosciuta.

Le interferenze dell’imprenditore miliardario, proprietario di SpaceX e Starlink, nelle decisioni dei governi di tutto il mondo hanno sollevato numerose sopracciglia, anche in Italia.

Anche coloro che operano sulla piattaforma X si indignano, senza mai porsi il minimo dubbio sul come o perché certe dinamiche portino alcune opinioni alla gloria e ne facciano sparire altre, mediaticamente parlando.

Qualche secolo, ma veloce

Nell’antica Grecia, gli Ateniesi avevano l’agorà, un luogo dove i cittadini si riunivano per discutere e decidere le questioni di interesse collettivo della città-Stato. Si potrebbe obiettare che a partecipare fossero solo i cittadini liberi e maschi, più simili a un’élite che a una piena rappresentanza popolare, ma la democrazia all’epoca era ancora agli inizi, e non si poteva chiedere di più.

Avanzando rapidamente al Settecento e Ottocento, mentre le monarchie si allontanano dal discorso politico, volontariamente o forzatamente, il ruolo di agorà viene svolto dalle corporazioni e dai caffè, attraverso volantini e pamphlet.

Il primo cambiamento radicale nella distribuzione delle informazioni, non più interpersonale ma attraverso un mezzo (quel medium da cui media), si riscontra nella stampa organizzata, inizialmente a tiratura locale e successivamente nazionale.

Successivamente, nel pieno del Novecento, la televisione di Stato è emersa come il primo medium virtuale, un non-luogo attraverso il quale i politici possono raggiungere ogni cittadino per comunicare le loro intenzioni, spiegare le decisioni e promuovere i principi e i valori della democrazia.

La rivoluzione digitale

All’inizio della rivoluzione di Internet, sembrava che il tipo di rappresentazione popolare ottenuta da TV e giornali, sebbene caratterizzata da una certa polarizzazione, potesse ulteriormente migliorare.

I primi blog, analogamente ai primi pamphlet, appaiono come uno strumento diretto e immediato per raccontare se stessi e il proprio gruppo di appartenenza collettiva. La promessa di un’agorà globale è affascinante.

Poi arrivano i social e il paradigma cambia. I social, inizialmente creati come piattaforme di puro intrattenimento per ritrovare vecchi amici e scambiarsi foto e messaggi, diventano la principale fonte di informazione per gli utenti, in alcuni casi persino l’unica fonte considerata affidabile.

Anche se internet appartiene – almeno idealmente – a tutti, i social media hanno un proprietario definito e concreto, giustamente orientato all’interesse personale prima che a quello della collettività. In sostanza, poche persone influenzano ciò che leggono e imparano tutte le altre nel mondo.

L’algoritmo

La questione non è (solo) il potere che hanno i social di dis-informare, quello è un concetto vecchio di secoli, specie in politica. Non si può dire sempre la verità, se in ballo ci sono interessi superiori per la collettività. Da questo dogma ci si è allontanati sempre più, arrivando a mettere un punto subito prima della subordinata, in un moto di auto-assoluzione che ha danneggiato sia il pubblico, sia la qualità dei media.

La vera innovazione risiede nella tecnologia utilizzata liberamente contro gli utenti, in quei sistemi che mirano a identificare, amplificare e manipolare, attraverso l’appropriazione di dati personali e comportamentali.

I Signori dell’Algoritmo decidono cosa vediamo sui social, quando e con quale frequenza; decidono su quali temi ci devono convincere e aizzare. Certo, possiamo esprimere il nostro pensiero ma non siamo noi a decidere chi lo leggerà veramente. E nemmeno il potenziale lettore ha alcuna voce in capitolo.

Foto da Unsplash

Ma la democrazia?

La realtà ne risulta spezzettata in una miriade di opinioni divergenti, tutte inattaccabili in nome dello spauracchio della censura, al punto da mettere in dubbio se la democrazia della libertà sia davvero efficace.

In questo stagno sguazzano i regimi autocratici, con Russia e Cina a ripetere che la “mente collettiva” delle democrazie non funziona più, che nell’era digitale vince la decisione centralizzata su quali siano le politiche migliori per un utente derivato e prodotto al tempo stesso della data analysis.

A meno di voler rinunciare alle libertà, si deve trovare una nuova via, aggiornare i concetti e i processi della democrazia. Ma indirizzare, al tempo stesso, i proprietari delle piattaforme social a cui si abbeverano le masse verso una maggiore trasparenza su come funzionano i loro algoritmi.

Pretendere risposte su cosa si sta facendo per proteggere, ad esempio, i minori dagli abusi a sfondo sessuale così frequenti sui loro siti. Chiedere conto di disinformazione e campagne sistematiche per sostenere o sminuire qualcuno o qualcosa.

Tematiche affrontate dall’Unione Europea nel Digital Services Act ma che invece in altri Paesi sono del tutto trascurate, spostando se non cancellando il confine tra libertà di parola e libertà di disinformare.

Punire non è mai utile

Chi scrive ha un problema con i divieti e le punizioni, metodi che servono soltanto a sopire la voglia di vendetta o a dare il contentino ai benpensanti. Ma se ban o sospensioni arrivano in egual misura per un post che incita all’odio e alla violenza e per uno che mostra il capezzolo di una Madonna rinascimentale è evidente che non funziona. Dall’essere poco efficace a diventare inutile – se non dannoso – il passo è breve.

Chi scrive preferisce l’educazione ai limiti. Non servono più regole, maggior definizione tra buoni e cattivi. O meglio, non servirebbe se le piattaforme social operassero in un contesto di trasparenza in cui ogni opinione avesse un reale diritto di essere vista, letta, condivisa e commentata.

Ai padroni delle piattaforme non vanno chieste norme più stringenti sui post dei loro utenti, non esiste la responsabilità oggettiva sui contenuti come avviene per un giornale, ad esempio, ma solo individuale di chi scrive. Dobbiamo invece pretendere che dichiarino quali e quanti dei nostri dati succhiano dalle piattaforme, per quale scopo, dove vanno a finire e a chi.

Imparare a scegliere

Avaaz è una organizzazione non-profit statunitense che promuove discussioni su argomenti divisivi e sostiene petizioni per incentivare i Governi verso il cambiamento. Il suo fondatore, Eli Pariser, ama paragonare internet a una città virtuale, piena di negozi e centri commerciali – cioè i social, nella sua metafora. Lamenta però l’assenza di piazze e centri di condivisione, delle biblioteche.

Se un utente crede di poter trovare notizie fatti accertati sui social, sta cercando nel posto sbagliato. E soprattutto non si rende conto che nei bassifondi, nell’ombra, operano le gang dell’algoritmo a decidere chi vince e chi perde.

Foto dal profilo Facebook di Eli Parisier

Scegliere su quale piattaforma stare, porsi dei limiti in autonomia su quali “quartieri della città” visitare, decidere con chi interagire e chi ignorare prevede una cultura digitale che, è evidente, manca a moltissimi degli utenti, spesso ignari che condividere alcuni contenuti non è soltanto stupido e dannoso, ma anche un reato.

Invece di sprecare il tempo con nuove regole, a preoccuparci di chi produce disinformazione o teorie complottiste, sarebbe il momento di provare a capire perché l’utente medio ne viene risucchiato, quali leve sub-coscienti attivino e come dirottare tali dinamiche verso un web migliore. Su questo il giornalismo può dare una mano, a patto di distaccarsi dalla imperante logica dei click.

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