Una delle frasi più significative sul cinema l’ha pronunciata la nonna di François Truffaut: “Ho visto il mare una volta, alla Paramount”.

Ovvero: è stato grazie al Grande schermo. Una frase che ispirò il regista francese per la realizzazione dell’ultima scena del suo capolavoro i 400 colpi, quel fermo immagine di Antoine Doinel davanti al mare, un misto di meraviglia e libertà che ha segnato un’epoca. Il cinema, dunque, come finestra sul mondo. Come mezzo per scoprire luoghi, storie e culture. Un’arte che pone lo spettatore davanti a una riflessione sul significato che una determinata inquadratura ha nei confronti dello spazio e del tempo in relazione al presente e/o al passato.

“Here”, graphic novel e film

Nel 2014 Richard McGuire pubblicò un graphic novel dal titolo Here: opera radicale che percorre la Storia attraverso un solo punto di vista, dai dinosauri a Benjamin Franklin, dalla radio alla tv al plasma. Here di Robert Zemeckis adatta il lavoro di McGuire in un film altrettanto radicale che adotta lo stesso principio della base di partenza. Grazie a un unico punto macchina osserviamo – come fossimo voyeur hitchcockiani – la vita di una casa e delle persone che l’hanno abitata.

Il trailer di Here

Essendo Zemeckis uno dei registi più sperimentali della sua generazione, la regia di Here segue le orme di un desktop-move dove il montaggio classico è sostituito da delle piccole inquadrature (finestre) all’interno del punto di vista principale. Come se lo spettatore fosse posto costantemente davanti a collegamenti ipertestuali in grado di portarlo avanti e indietro nel tempo.

Un esempio? In uno dei momenti più toccanti del film, Richard (il protagonista del film) indica alla figlia appena nata la luna. Contemporaneamente, in una finestra all’interno dell’inquadratura principale, viene mostrato come nello stesso luogo un nativo americano compiva il medesimo gesto con il figlio appena nato.

Ceneri del passato che diventano l’impronta della Storia nello spazio. Il racconto che ne consegue si fa testimoniale, quasi archeologico per come scava e lavora sul ruolo delle immagini – seppur artificiali – come documenti al di là della loro significazione. Here perciò è anche un racconto corale, di più storie, per tracciare la sedimentazione culturale che articola la nostra percezione del presente.

Disillusione vitale

Al tempo stesso il fil rouge sentimentale principale è tenuto in piedi da una coppia Richard (Tom Hanks) e Margaret (Robin Wright) – riuniti dopo Forrest Gump – innamorati da giovani e disillusi dalla vita da anziani. “Il tempo è volato” viene spesso detto da entrambi e il punto di vista unico del film è perfettamente funzionale a far sentire il peso di tutto ciò.

Cambiano i mobili, il modo di vestire, la tecnologia, ma soprattutto i volti di Tom Hanks e Robin Wright, prima ringiovaniti grazie al software Metaphysic e poi invecchiati. Un’idea di cinema museale duplice: storica e sentimentale, dove spesso la combinazione fra queste due matrici porta lo spettatore a specchiarsi realmente nella fragilità della vita.

Mariuccia Cotta su FilmTV scrive di Here parlando di un film che «racconta il fallimento del Sogno americano, nessuno riuscirà a realizzarlo, tranne la coppia senza figli. Margaret non sarà avvocato, Richard smetterà di dipingere perché in mancanza di sostegno pubblico all’istruzione e alla sanità non resta “per fare soldi” che vendere qualcosa, assicurazioni o aspirapolvere. Eppure c’è qualcosa di gioioso nel film, una specie di “slancio vitale”, la scoperta di un possibile cambio di visione quando la camera si gira, scopre l’altra parte della stanza, esce dalla gabbia-vetrata e lievita in alto per inquadrare la finestra – l’esistenza individuale – finalmente con gli occhi del mondo».

Il cinema, dunque, come finestra sulla vita. Con una leggerezza che appartiene solo ai grandi maestri. Proprio davanti a noi, here.

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