Ritorno all’Odissea
Christopher Nolan girerà un film sull'Odissea di Omero. Un'occasione per parlare della figura di Odisseo (latinamente Ulisse) e del poema considerato il fratello minore dell'Iliade.
Christopher Nolan girerà un film sull'Odissea di Omero. Un'occasione per parlare della figura di Odisseo (latinamente Ulisse) e del poema considerato il fratello minore dell'Iliade.
La notizia del giorno è che Christopher Nolan girerà un film sull’Odissea di Omero. Già circolano i nomi dei possibili interpreti, già l’attesa, alimentata dalla stampa specialistica e non, sta crescendo in modo esponenziale.
Di fronte a un progressivo e, sembra inarrestabile, declino degli studi classici, non è fattore di poco conto che una figura di spicco della cultura mediatica contemporanea dedichi la sua attenzione al secondo poema omerico.
La figura di Odisseo (latinamente Ulisse) ha in varia misura nel corso dei secoli affascinato scrittori, filosofi e poeti (sopra ogni altro Dante) ma, credo di poterlo affermare senza timore, ha in certa misura offuscato la fama dello stesso poema al quale deve la sua straordinaria notorietà.
Vale la pena dunque, anche in chiave divulgativa, puntare nuovamente la nostra attenzione sull’Odissea, troppo a lungo considerata, secondo me a torto, la sorella minore dell’Iliade, forse anche perché schiacciata tra due giganti antichi, L’Iliade, appunto, e il più tardo, ma pur sempre antico, poema latino: l’Eneide.
La stessa Questione Omerica, che in vari momenti della storia culturale europea ha rappresentato quella che io amo definire la “cartina al tornasole” del rapporto di un’epoca con il mondo antico, si è sempre concentrata sull’Iliade e ha, quasi automaticamente, ma indebitamente, esteso anche all’Odissea le esplorazioni filologiche specificamente dedicate al primo poema.
La caratteristica essenziale di tutte queste analisi, spesso estremamente fredde e persino meccaniche, è di non riconoscere, o di ammettere con estrema difficoltà, l’esistenza di un unico e sicuro compositore, almeno uno per ciascuno dei due poemi omerici, posto che un unico ben identificato autore, chiamato Omero, è effettivamente di fatto impossibile ad ammettersi.
Le posizioni più recenti della secolare questione sembrano accreditare l’esistenza di soggetti (individuali o collettivi) ai quali attribuire la responsabilità di aver organicamente configurato in un racconto unitario, pur con alcune evidenti contraddizioni, frammenti, pezzi, strutture anche ampie, precedentemente composte e trasmesse oralmente e successivamente sedimentatesi in forma sufficientemente stabile per essere poi “ricucite e ordinate” in un’opera coerente, se non coesa (per questi concetti si veda sotto).
Un secolo fa, precisamente nel 1928, l’ultimo gigante della filologia omerica, Milman Parry, nella studio L’Épithète Traditionnelle dans Homère. Essai sur un problème de style Homérique (Parigi, Les Belles Lettres), presentò quella che doveva risultare come una scoperta fondamentale e rivoluzionaria nella filologia omerica, ossia la natura formulare della lingua omerica [argomento sul quale ritorneremo in un prossimo intervento].
Un secolo di studi e di analisi, condotte anche senza specifiche intenzione critiche, ma con il solo obiettivo di focalizzare i meccanismi della composizione orale, ci hanno in realtà condotto a cogliere, nella complessa tessitura linguistica di questo poema, una coesione che ha dell’incredibile, fermo restando che la coerenza è di abbagliante chiarezza. Le incertezze, infatti, dello sviluppo narrativo sono dovute a questa particolare natura del linguaggio epico e non inficiano minimamente la consequenzialità generale dello sviluppo logico, talché non ha senso affermare che i compositori dei canti epici fossero incatenati alla formularità e non potessero esprimere una loro linea di racconto.
Va piuttosto considerato il fatto che la soggettività creativa, come noi la intendiamo dalla lirica greca in poi fino ai contemporanei, non appartiene all’orizzonte culturale e psicologico di questo universo poetico. Come è noto il concetto di coesione è relativo alla connessione interna dello sviluppo narrativo e ha a che fare con il rigore dei passaggi logici. Mentre la coerenza rinvia alla tenuta strutturale dell’intenzione espositiva. Ebbene, la lingua omerica è caratterizzata dalla formularità nella forma, ma non ne è prigioniera.
I poemi omerici non sono nati un una civiltà della scrittura, ma in una società caratterizzata da una assoluta oralità o oralità primaria. L’epica arcaica era dunque trasmessa oralmente e stabilizzata grazie a strutture formulari ricorrenti che ne facilitavano la composizione, la memorizzazione e l’esposizione. Ora sappiamo che le caratteristiche di questa lingua non possono nemmeno lontanamente essere esaminate e studiate secondo i criteri della “civiltà della scrittura”. L’idea stessa di un Autore, come noi lo intendiamo, non ha alcun senso. Bisogna pensare invece a soggetti riuniti con ogni probabilità in corporazioni specializzate, all’interno delle quali una figura di spicco, una specie di scolarca, aveva il compito di coordinare il comune lavoro mnemonico su materiali tradizionali.
In questo contesto un soggetto geniale, dalla memoria prodigiosa, forse alle soglie di un cambiamento culturale nel quale già la scrittura aveva assunto un suo impiego più diffuso, configurò con straordinaria competenza – e con l’aiuto di collaboratori affidò alla scrittura – questo capolavoro. Anzi dovremmo pensare che questa vicenda si fosse già realizzata anche per l’Iliade, probabilmente giunta a sistemazione alcuni decenni prima.
In realtà la struttura dell’Odissea, come oggi noi la leggiamo, è di tale complessità, che risulta davvero difficile pensare che non sia il frutto di un soggetto, individuale e non collettivo, consapevole e tecnicamente competente, capace di tenere sotto controllo un’opera di vaste dimensioni. Anche le parti che sembrano frutto di originarie mani diverse, come il sesto e il ventiquattresimo libro, per non parlare del blocco centrale più celebre che riporta le avventure estreme del protagonista, sono comunque connesse a un sistema unitario in modo tutt’altro che rozzo e primitivo e rivelano una intentio operis che non sembra facilmente confutabile.
Ma torniamo all’analisi dell’opera, non prima però di aver introdotto due ulteriori chiavi critiche necessarie alla comprensione di ciò che ci apprestiamo ad esporre. Si tratta dei concetti di fabula e di intreccio, divenuti ormai consueti anche nella prassi scolastica. Furono introdotti all’inizio del secolo scorso dalla scuola critica dei Formalisti Russi (citiamo solo Viktor Šklovskij, Vladimir Propp e Boris Ejchenbaum) e sono estremamente utili per comprendere la struttura dell’Odissea. Non meno adeguato e appropriato è anche il concetto cinematografico di flashback.
Orbene, la fabula è la serie degli avvenimenti di un racconto ordinata logicamente e cronologicamente. L’intreccio è invece la sequenza espositiva decisa dall’autore, il quale dispone gli eventi come ritiene più opportuno per creare quegli effetti della narrazione, suspense, emozioni, suggestioni, paura etc., che nel complesso vanno sotto la definizione di “effetto di straniamento”, concetto già aristotelico (espresso con la consueta lucidità dal grande filosofo nella sua Poetica) che caratterizza la specificità dell’opera d’arte, distinta dalla asetticità della trattazione scientifica e filosofica.
Lungi dal volermi schierare con i più accaniti unitari, ai quali sembra persino blasfemo negare l’esistenza storica di Omero, credo che la lunga consuetudine con il “secondo” poema mi consenta di affermare, sempre con la necessaria prudenza, che siamo in presenza di un’opera strutturalmente organica.
Esploriamone dunque la configurazione:
Questa in estrema sintesi – e con qualche omissione di fatti minori – la struttura dell’Odissea. Che a qualcuno possa venire in mente di considerare una simile organizzazione narrativa come scaturita da una casuale aggregazione di brani fra loro staccati ha dell’incredibile. Eppure c’è stato fior di filologi che ha ritenuto di vedere nell’Odissea semplicemente l’agglomerato, la “ricucitura” di episodi fra loro indipendenti e giustapposti dalla prassi espositiva di una tradizione orale in certa misura usuale e di routine.
Caratteristica dell’Odissea, come si può vedere, è una organizzazione assai complessa dell’intreccio, rispetto alla linea della fabula. Qui di seguito riportiamo la struttura della fabula, ovvero la corretta successione degli eventi secondo l’ordine temporale e logico. Si noterà come alcune situazioni risultino contemporanee; ad esempio il concilio iniziale degli Dei (Libro I e inizio del V) e la partenza di Telemaco da Itaca con l’arrivo di Ermes all’Isola di Calipso a recare l’ordine di lasciar partire Odisseo (Libri II e V); buona parte della Telemachia (Libri I- IV) e il soggiorno di Odisseo presso i Feaci (Libri VI-XIII).
La prossima figura invece riproduce la struttura dell’intreccio, ovvero la sequenza dei fatti come sono narrati. Si tenga presente che caratteristica necessaria del racconto è la sua natura sintagmatica, ovvero lineare, in quanto costituita, appunto da sintagmi, cioè sequenze di parole connesse fra loro da legame grammaticale o semantico. Il racconto conosce infatti una sola e semplice logica temporale, che è quella del prima e del poi. La contemporaneità viene appiattita sulla stessa linea e quindi sembra che accadano prima o dopo fatti che in realtà avvengono nello stesso momento.
Si considerino con attenzione i colori dei segmenti che rinviano alla divisione dei libri come l’abbiamo riportata più sopra. Si può notare che l’inizio della narrazione (segmento blu dell’intreccio) avviene già in medias res, quando ormai tutte le vicissitudini di Odisseo (segmento rosso) si sono concluse e si sta per giungere all’acmé, ovvero al punto più alto, della vicenda, ovvero il ritorno a Itaca e l’inizio della fase finale (segmento violetto).
Il vero inizio cronologico del “ritorno” da Troia si ha invece a partire dal libro IX che con i successivi X, XI e XII riporta le vicissitudini avventurose di Odisseo e compagni fino al naufragio fra Scilla e Cariddi e il successivo approdo a Ogigia, l’Isola di Calipso. Il procedimento del flashback fa sì che vengano incastrati all’interno di vicende contemporanee fatti avvenuti in precedenza. Ne consegue che le avventure di Odisseo e compagni (in greco ἀπόλογοι, apólogoi, ovvero racconti) siano inserite nell’esposizione del soggiorno preso i Feaci, assumendo, nella tensione narrativa, il valore di un inquietante ricordo. Se, infatti, a narrare le vicende di Odisseo è per lo più il poeta “onnisciente”, nei libri IX-XII il narratore è Odisseo stesso. Abbiamo quindi il racconto nel racconto, con un gioco di piani narrativi degno di un cultura letteraria tutt’altro che primitiva. Fattore che diventa esso stesso elemento sostanziale, perché aumenta il fascino dell’eroe errabondo e sventurato.
L’Odissea è in questo senso la prima grande opera della letteratura occidentale organizzata come un romanzo. Questa tratto la rende di una atualità sorprendente, al di là degli aspetti contenutistici che disegnano quell’affresco straordinario della vicenda umana costituito dalle avventure di Odisseo, dal suo ritorno in patria, dai suoi incontri, dalle sue emozioni e dalle sue inquietudini. Possiamo ben dire, parafrasando Umbero Eco, che in questo caso la “forma del contenuto” ha una funzione essenziale nel trasformare i miti in letteratura, i racconti sparsi di leggende lontane in un’opera d’arte.
Pensare che tutto questo sia frutto, non dico del caso, ma di una involtaria e inconsapevole aggregazione, risulta piuttosto difficile. Non bisogna lasciarsi ingannare dalla ripetitività delle formule e da un fluire del racconto caratterizzato da meccanismi tipicamente orali, che non solo non disdegnano, ma si reggono strutturalmente sulle ripetizioni e sulle ricorrenze identiche di sintagmi e di interi versi. Il fascino della poesia omerica è proprio in questa dialettica profonda fra una lingua fattasi essa stessa opera di straordinario ingegno e le vicende narrate che in quella lingua si manifestano e restano impresse non solo nella memoria, ma nel cuore di chi, dopo averle incontrate una volta, le fa sue come dimensione della vita stessa.
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