Uno straniero qualunque
Riceviamo e pubblichiamo questo racconto personale firmato da Federica Panizzo, avvocata penalista del foro di Verona e già collaboratrice di Heraldo.
Riceviamo e pubblichiamo questo racconto personale firmato da Federica Panizzo, avvocata penalista del foro di Verona e già collaboratrice di Heraldo.
Mi sveglia una telefonata nel cuore della notte di Ferragosto. Superato il momento di ansia che da alcuni anni accompagna il suono improvviso e invadente del cellulare, realizzo che non può trattarsi di una notizia tragica di un familiare o di un ospedale, poiché ho già perso le persone a me più care. Capisco che probabilmente sono solo di turno per le difese d’ufficio. Ascolto assonnata un rapido resoconto: A.A., di nazionalità marocchina, è stato arrestato per resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 cp).
Mi oriento, chiedo dove e a che ora siano avvenuti i fatti, e una voce metallica mi racconta che il reato è stato commesso in una via del centro storico, dopo che A.A. minacciava con delle forbici un gruppo di ragazze. Mi viene comunicato che l’indomani, dopo le 10:30, si terrà il giudizio direttissimo. Raccomando la presenza dell’interprete e riaggancio. Dalle finestre aperte arriva il ronzio di un televisore. Penso siano i vicini, anche loro costretti all’estate e intolleranti all’aria condizionata. Rifletto sulla telefonata appena conclusa e… a quanto tutto sia, tristemente, sempre uguale. Cerco di riaddormentarmi.
È già mattina quando prendo il Codice Penale e di Procedura Penale tascabili e scelgo la toga che sembra meno pesante per il caldo. Alle 10:00 mi trovo al secondo piano del tribunale. Entro nella camera di sicurezza per un colloquio prima della celebrazione del rito direttissimo. A.A. mi accoglie a torso nudo, indossando pantaloncini corti e ciabatte di gomma. Cerco di spiegargli chi sono, qual è il mio ruolo e perché sono lì con lui, facendo notare che sarebbe opportuno indossasse almeno la maglietta. L’interprete arriva e cerca di aiutarmi come può.
A.A. mi guarda con esasperazione e sorpresa… si mette la maglietta con l’aiuto degli agenti delle forze dell’ordine che lo hanno arrestato. Riprendo la mia spiegazione, questa volta con l’aiuto di una persona che parla la lingua madre di A.A.
Chiedo ad A.A., che specifica di voler un avvocato uomo, cosa sia successo la notte precedente. Afferma che la sua mente è posseduta da alcuni spiriti, una condizione che dura da quando aveva 16 anni. Dalla sua partenza per arrivare, da clandestino, in Italia, questi spiriti abitano anche la mente del fratello morto durante la traversata. L’interprete mi guarda allarmato e sbigottito. Non c’è più tempo. Non ho tempo di riflettere, di dubitare, di farmi domande. Mi avvisano che la Giudice è arrivata ed è pronta per l’udienza.
A.A. viene portato in aula e inizia un’udienza in cui la giudice cerca di ammonire e contenere il ragazzo, il quale ripete ossessivamente la sua versione, togliendosi la maglietta, imitandola e deridendola. La stessa sorte tocca a me e all’interprete, che terrorizzato chiede di non essere accanto all’imputato. Dentro di me mi chiedo se A.A. sia realmente affetto da un grave disagio psichico o stia, come a volte accade, simulando per ottenere benefici processuali.
Arresto nuovamente i miei pensieri e le mie valutazioni sommarie, mi limito a svolgere il mio lavoro e a richiedere che non venga applicata alcuna misura cautelare, se non quella dell’obbligo di firma, poiché A.A. ha solo diciotto anni e non ha precedenti penali. La giudice respinge la richiesta di adozione della misura cautelare estrema – il carcere – e applica la misura dell’obbligo di firma.
A.A. si agita e a quel punto la giudice lo invita a lasciare l’aula accompagnato dalla scorta, chiedendo la trasmissione della notizia di reato per oltraggio alla giudice e gravi minacce al difensore (cioè a me) e all’interprete, disponendo di procedere oltre. Mi limito, soddisfatta che A.A. non vada in carcere, a chiedere un termine per la difesa per valutare il da farsi, consapevole che A.A. non si presenterà a firmare in Questura nei termini stabiliti dalla giudice, e domandandomi se, forse, non avrebbe preferito andare in carcere.
Un paio di mesi dopo quella mattina estiva, in prossimità dell’udienza di rinvio, vengo contattata da alcuni volontari che supportano persone straniere. Mi chiedono notizie di A.A. e mi spiegano che stanno cercando di seguirlo da molto tempo insieme agli assistenti sociali. Faticosamente, cerco di spiegare loro che sono tenuta a mantenere il segreto professionale e non posso, non voglio e non devo divulgare informazioni riservate relative al mio assistito d’ufficio, A.A. Non mi sembra che comprendano il mio punto di vista, che anch’io fatico a capire dal punto di vista umano, poiché alla fine si tratterebbe solo di aiutare una persona in grave stato di sofferenza. Tuttavia, sono un’avvocata e come tale devo comportarmi. Giungiamo a un compromesso: mi confronterò solo con il medico o l’assistente sociale.
Credo che anche chi, come A.A., ha bisogno di aiuto abbia diritto alla riservatezza e alla dignità, e io non sono autorizzata a raccontare la sua storia a chi non sia legalmente incaricato di sostenerlo. Consiglio, quindi, ai volontari, che agiscono con grande generosità, di farsi nominare almeno amministratori di sostegno per queste persone. Non è sufficiente, a mio avviso, limitarsi all’azione; è necessario che questa sia accompagnata dal rispetto delle regole, utilizzando gli strumenti legali disponibili per chi, per varie ragioni, non è in grado di prendere decisioni autonomamente.
Ascolto attentamente le parole dell’assistente sociale che mi conferma che A.A. soffre di un grave disturbo post-traumatico dovuto alla migrazione e al trattenimento in un centro di identificazione dopo il suo ingresso in Italia. È fondamentale che continui a essere seguito dai servizi sociali, poiché è anche sottoposto a terapia farmacologica, in diminuzione, a causa dell’enorme assunzione di psicofarmaci durante il periodo di quasi detenzione.
Nel giorno dell’udienza di rinvio, richiedo al Giudice di nominare un perito per valutare la capacità di A.A. di partecipare al processo, oltre che la sua capacità di intendere e volere. Il Giudice accoglie la richiesta e rinvia l’udienza, disponendo il giuramento di un perito psichiatrico.
Ora attendo l’esito della perizia psichiatrica. Ho sempre avuto dubbi nel richiederla per reati non gravi, che non destano particolare allarme sociale. In questo caso, però, mi è sembrata necessaria e ho superato la titubanza che mi accompagna quando, da profana, mi approccio a situazioni di grave marginalità, disagio sociale o psichico. Per un difensore, almeno per me, la richiesta della perizia psichiatrica è sinonimo di dubbio sulle capacità mentali del mio assistito, sulla sua capacità di comprendere realmente le conseguenze delle sue azioni. Una persona che deve essere difesa, mi sono sempre detta, va protetta e non va giudicata o umiliata dalla scelta processuale, almeno se non concordata. Io non giudico ma tutelo, secondo la legge.
Nel caso di A.A., tutto è stato differente. Nessun dubbio, dopo il colloquio con l’assistente sociale di riferimento, forse perché si ripetono i procedimenti per lo stesso capo d’imputazione: resistenza a pubblico ufficiale da parte di un soggetto senza fissa dimora straniero. Questa imputazione, anche se rappresenta l’ennesimo processo per direttissima, non deve portarmi ad abituarmi o a considerarla “normale”. È sempre necessario essere attenti nello svolgimento della professione forense, poiché ogni storia è un caso unico e ogni persona imputata è unica, così come unica è la storia degli appartenenti alle forze dell’ordine che, in tali processi, sono le persone offese dal reato. Gli accertamenti su come i fatti si sono effettivamente svolti devono essere sempre diversi e scrupolosi.
In ventisette anni di iscrizione alle liste dei difensori d’ufficio, non mi era mai capitato un caso come questo. Apparentemente molto normale e non carico, come altri che ho seguito, di attese, pressioni sociali, o oggetto di attenzione mediatica; eppure, la storia di A.A. l’ho vissuta con un senso di solitudine e rinnovato stupore. Mi sono riscoperta in una situazione in cui la diversità mi ha colto in tutta la sua evidenza.
Ma, in fondo, sono stati e spero continuino sempre a essere processi come quello che vi ho narrato, quelli in cui sono in gioco i bisogni primari e i diritti vitali da difendere. Sono questi i processi in cui mi sono sentita a mio agio, convinta dell’utilità del mio ruolo e non protetta dalla mia toga che, si dice, dovrebbe coprirmi le spalle dalle passioni.
Anche il processo di A.A., uno straniero qualunque accusato di resistenza a pubblico ufficiale, mi ha aiutato a comprendere il mondo, le relazioni personali con ambienti diversi e lontani dal mio, incontrati in quell’intreccio di mestiere e senso civico che spero caratterizzino la mia vita quotidiana.
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