24 settembre del 2005 e 20 ottobre 2024. Paolo Scaroni e Moussa Diarra. Due nomi e due date distanti quasi venti anni fra loro che sembrano però avere molto in comune.

La prima data riguarda il pestaggio ai danni di Paolo Scaroni, tifoso del Brescia, aggredito dalla Polizia fuori dalla stazione di Porta Nuova di Verona e che lo ha reso invalido al 100%, dopo aver trascorso due mesi in coma. Nello stesso luogo, il 20 ottobre scorso, è stato ucciso Moussa Diarra, il ragazzo maliano che, secondo una prima ricostruzione da parte della Polizia, pare stesse aggredendo il poliziotto che poi ha sparato il corpo mortale.

Una pestaggio e una morte avvenuti nello stesso luogo ad opera in entrambi i casi della polizia. Questa e altre analogie inquietanti, come l’assenza di immagini dell’accaduto, sono state spiegate stamattina in una conferenza stampa tenuta dal Laboratorio Autogestito Paratod@s, insieme a Diego Piccinelli, Presidente dell’Associazione Ultras Brescia 1911 EX-Curva Nord che ha seguito il processo di Paolo Scaroni, Umberto Gobbi di Radio Onda d’Urto di Brescia, l’Associazione Faso Yeredon di Verona, l’Alto Consiglio dei Maliani in Italia e Carlo Piazza Presidente dell’Osservatorio di comunità

Le immagini

In entrambi i casi, il mistero delle immagini gioca un ruolo centrale negli eventi. Nel caso del pestaggio di Paolo Scaroni, le riprese delle telecamere della stazione Porta Nuova di Verona inizialmente sembravano scomparse e non venivano esibite nelle prime fasi delle indagini. Successivamente, le immagini sono riemerse, ma la sentenza finale le ha dichiarate manomesse dai tecnici. Secondo la sentenza, la polizia è stata giudicata colpevole, ma la responsabilità è stata attribuita al corpo nel suo insieme, non ai singoli agenti coinvolti, poiché dalle immagini non è stato possibile identificare gli autori appartenenti alla Celere di Bologna.

Djemagan Diarra – fratello di Moussa durante la conferenza stampa

Nel caso di Moussa, le immagini non sono ancora emerse neppure dopo due mesi, nonostante le avvocate della difesa le abbiano sollecitate ripetutamente, anche in pubblico. Proviamo a ricostruire i passaggi e le incongruenze legate a queste immagini:

Il 20 ottobre, giorno dell’incidente, nel comunicato congiunto di Questura e Prefettura si menzionano immagini chiare che mostrano l’aggressione del giovane verso il poliziotto. Quest’ultimo, secondo il comunicato, non avrebbe avuto altra scelta se non quella di sparare per legittima difesa. Le avvocate di Moussa, Paola Malavolta e Francesca Campostrini, chiedono da tempo di visionare queste immagini, ma non ricevono risposte per settimane.

Il 15 novembre, a quasi un mese di distanza, il Procuratore di Verona, Raffaele Tito, annuncia che la telecamera centrale più vicina all’incidente era disattivata il giorno dell’aggressione e quindi non ha registrato alcun dato. Le altre telecamere, invece, sono troppo lontane e le loro immagini sono troppo sfocate per chiarire la situazione. Questo risulta in netta contraddizione con il comunicato diffuso il giorno della morte di Moussa.

Il 22 novembre, a causa del mistero che avvolge le immagini delle telecamere e le dichiarazioni della Procura di Verona, il caso approda in Senato, dove la Senatrice Ilaria Cucchi sollecita l’apertura di un’inchiesta parlamentare per chiarire i fatti. Durante la conferenza stampa in Senato vengono presentate le foto delle numerose telecamere situate sia all’interno che all’esterno della stazione, alcune delle quali vicine al luogo dell’incidente. In questa occasione, le avvocate denunciano anche un clima di omertà che aleggia sul caso, evidenziando che, oltre alla sparizione delle immagini, nessuna azienda operativa in stazione quella mattina ha fornito l’elenco dei dipendenti presenti al momento dell’accaduto.

Il 12 dicembre, il Procuratore di Verona Tito sembra ritrattare le sue dichiarazioni del 15 novembre, quando aveva affermato che le telecamere erano in funzione. Tuttavia, egli sottolinea che le telecamere più vicine hanno la visuale parzialmente ostruita e non catturano i momenti immediatamente precedenti allo sparo e alla caduta di Moussa. Conferma inoltre che le altre telecamere sono troppo distanti e le immagini risultano poco definite. La Polizia scientifica di Padova sta analizzando queste immagini da quasi due mesi.

Le narrazioni fuorvianti  

Il 24 settembre 2005, l’incidente che coinvolse Paolo Scaroni ha visto la Polizia fornire diverse spiegazioni nei giorni successivi. Inizialmente, si parlò di scontri tra i tifosi del Verona e quelli del Brescia, durante i quali Scaroni sarebbe stato brutalmente aggredito dai sostenitori veronesi. Una seconda versione suggeriva che Scaroni fosse stato colpito dai suoi stessi compagni, tifosi del Brescia, che avrebbero lanciato una pietra verso gli avversari, colpendo invece Paolo alla testa e mandandolo in coma. Una terza versione affermava che Scaroni, nel tentativo di fuggire dalla carica della polizia, fosse inciampato, cadendo e battendo la testa sul gradino del treno su cui cercava di salire. Tuttavia, le indagini hanno smentito tutte queste versioni, poiché i segni dei colpi sulla testa e sulla schiena di Scaroni derivano chiaramente da manganellate, anche con la parte del manico. Non sono emersi segni riconducibili a pietre, gradini o altro.

Su Moussa si è inizialmente diffusa la voce che avesse con sé della droga e che quella mattina fosse probabilmente sotto l’effetto di stupefacenti o ubriaco, allo scopo di sostenere lo stereotipo razzista dell’immigrato spacciatore e sbandato. Si è anche detto che avesse avuto una colluttazione con i poliziotti; tuttavia, l’autopsia ha smentito che Moussa fosse sotto l’effetto di droghe o alcol e non vi erano segni di colluttazione sulle mani. Inoltre, è stato smentito anche il possesso di droga. Questo ha smontato la costruzione di stampo razzista.

Racconti e narrazioni che influenzano facilmente un’opinione pubblica carica di pregiudizi verso le tifoserie e gli immigrati. Queste storie sono semplici da creare ma difficili da smentire e, soprattutto, da cancellare dalla memoria collettiva. Fortunatamente, in entrambi i casi, si è formata una comunità di persone e associazioni che ha rifiutato di accettare ricostruzioni semplicistiche e verdetti già stabiliti da un’opinione pubblica spesso guidata dall’emotività. Queste organizzazioni e movimenti, nonostante i pregiudizi e l’opposizione diffusa, si sono uniti compatti, chiedendo con forza che venisse fatta chiarezza:

Le richieste di giustizia e verità

Per Paolo Scaroni si sono attivati i suoi compagni di stadio, in particolare il gruppo “I Tifosi del Brescia 1911” e la radio bresciana “Radio Onda d’Urto”. Hanno focalizzato l’attenzione su quanto avvenuto fuori dalla stazione di Verona in quel tragico dopo partita. Negli ultimi otto anni, hanno organizzato numerose manifestazioni ed eventi per sensibilizzare l’opinione pubblica, fino alla sentenza finale che ha riconosciuto la colpevolezza della Polizia e ha assegnato a Scaroni un risarcimento per i gravi danni subiti, che lo segneranno per sempre.

Per il caso di Moussa Diarra, è stato costituito prontamente un Comitato formato da movimenti veronesi, tra cui Il Paratod@s, il Circolo Pink e altre associazioni ben informate su Moussa. Insieme hanno subito richiesto chiarezza sugli eventi della mattina di domenica 20 ottobre, avvenuti fuori dalla stazione di Porta Nuova. È stata organizzata una manifestazione che ha visto la partecipazione di quasi 5000 persone per le strade di Verona, segnando la prima grande manifestazione nera in città, un fiume di persone che chiedeva verità e giustizia. Per mantenere alta l’attenzione, è stato eretto un “altarino” nel luogo della morte di Moussa, adornato con alcune sue foto, dove chiunque può lasciare un fiore. In quel luogo si sono svolti diversi momenti di raccoglimento in memoria del giovane maliano e varie conferenze stampa, inclusa quella odierna, in cui coloro che hanno seguito il caso Scaroni e stanno seguendo quello di Moussa hanno evidenziato le troppe similitudini tra le due storie.

Moussa è morto, e Scaroni porta con sé, nel corpo e nella mente, i segni di quell’aggressione. Gli stessi segni che Moussa aveva sul suo corpo e nella sua mente, segni delle torture subite nei lager in Libia. Queste ferite, nel corpo, nella mente e nell’anima, sono somiglianze che spaventano e che devono portare a riflettere sul vero senso dello stato di diritto in un Paese occidentale e democratico. Uno stato di polizia che, per le fasce apparentemente più deboli, sembra voler esercitare potere per emettere facili sentenze, condizionando volutamente l’opinione pubblica con lo scopo di perpetuare una narrazione fuorviante e a proprio vantaggio, anziché costruire un senso di giustizia comune, uguale per tutti i cittadini.

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