Nei giorni scorsi, lo scacchiere mediorientale ha visto aggiungersi un nuovo fronte di conflitto a quelli che già interessano, da più di un anno, principalmente i Territori Palestinesi e il Libano. Il gruppo militante islamista Hayat Tahrir al-Sham (HTS) ha sferrato un attacco rapido quanto vittorioso su Aleppo, per anni fedele roccaforte del presidente Bashar al-Assad, e ha interrotto la maggior arteria autostradale nord-sud del Paese, che unisce Aleppo alla capitale Damasco.

È una nuova fase della guerra civile che dura da 13 anni e che forse, distratti da altre più pressanti questioni, avevamo sperato si fosse conclusa con i negoziati di Astana del 2016. Un errore giustificato dall’assenza di scontri di rilievo, da una situazione geopolitica da tempo cristallizzata in aree geografiche formalmente siriane ma di fatto sottoposte al controllo di diverse fazioni, tra cui l’esercito regolare, quello “di liberazione”, lo Stato Islamico e HTS, appunto.

Colpo di mano

Le milizie sembrano essere entrate in Aleppo incontrando poca resistenza. Hanno preso di sorpresa un esercito demoralizzato e pronto alla diserzione e la popolazione è apparsa “abituata” alla presenza di ribelli nelle aree limitrofe. Hanno poi approfittato dello scenario internazionale favorevole, creato dai ripetuti bombardamenti israeliani mirati a decapitare i ranghi elevati di Hezbollah, strenuo alleato del regime Assad durante la guerra civile del 2011.

Anche gli altri “grandi alleati” del tempo sono impegnati su fronti diversi, la Russia nella guerra di posizione in Ucraina e l’Iran concentrato sulle questioni interne e internazionali. Se gli alleati del tuo nemico sono girati dall’altra parte, è il momento migliore per riallacciare i contatti con i nemici del tuo nemico. Con l’aiuto di forze sovvenzionate dalla Turchia, la “gente di Idlib” come viene riconosciuta la milizia, ha avuto gioco facile nel conquistare Aleppo. In due giorni HTS ha ottenuto un risultato che aveva richiesto 100 giorni nel 2016 (e nemmeno per tutte le aree della città).

Chi è Hayat Tahrir al-Sham

Il Movimento per la Liberazione del Levante è un gruppo fondato in origine da al-Qaeda, in seno alle brigate al-Nusra, per cogliere le opportunità offerte dal collasso della Siria durante la guerra civile. Di successo immediato, si crea una reputazione di terrore attraverso attacchi suicidi e imboscate contro le forze regolari e altri nemici. Pur condividendo con ISIS l’ideologia di un califfato islamico tra Siria e Iraq, le due fazioni sono acerrime nemiche e HTS arriva al punto di staccarsi da al-Qaeda.

Negli ultimi cinque anni il movimento ha controllato la provincia di Idlib, nel nordovest della Siria, dove ha stabilito quello che definisce il “governo della salvezza” che gestisce scuole, ospedali e tribunali per circa quattro milioni di residenti. Il distacco dall’area militante per creare un progetto politico al fianco della popolazione ha fornito a HTS una base territoriale compiacente e introiti sicuri da tasse e balzelli.

Foto da Unsplash di Cole Keister

Chi comanda

Il leader durante i 13 anni di esistenza del gruppo è sempre lo stesso, Ahmed Hussein al-Shar’a, conosciuto come Jawlani. Di lui, 42 anni, si sa poco, sembra sia nato da una famiglia di profughi delle alture di Golan, da cui è fuggita dopo l’invasione israeliana del 1967 (e tuttora in corso). Combatte contro la coalizione a guida statunitense che invade la Siria nel 2003 e segue le sorti di prigionia di altre migliaia di combattenti.

Rilasciato da una prigione irachena nel 2011, con sei sodali rientra in Siria e prende il comando della costola di al-Qaeda. Guida un gruppo militare ben addestrato ma piuttosto “leggero” quanto ad armamenti, che è di fatto una coalizione tra fazioni di origini disparate, dai Tagichi ai Turcomanni, dagli Uzbeki fino a componenti provenienti dall’Europa.

La svolta politica

Il gruppo abbandona presto le maniere forti e la repressione sistematica per darsi una connotazione più politica, prendendo le distanze da al-Qaida e convincendo le comunità locali a sottomettersi offrendo servizi e sicurezza, al posto di violenza e paura. Nel 2021 una taglia di 10 milioni di dollari non impedisce a Jawlani di partecipare a un’intervista con un’emittente USA, forse il culmine dell’operazione di pulizia del “brand” HTS.

Considerato da USA ma anche Russia, Turchia e altri tra i gruppi terroristi, in un certo senso HTS si distacca dagli altri gruppi islamisti mediorientali per la sua visione più concentrata alla dimensione locale. Adotta la Shar’ia e i codici islamici, ma con minor rigore, e ha perfino eliminato la polizia morale in seguito a proteste popolari sulla scia iraniana. Gli intensi sforzi diplomatici hanno permesso di concludere accordi con diversi organismi umanitari internazionali, invitati a una presenza sul campo e a effettuare controlli sulla destinazione degli aiuti.

Strategia che funziona

La propaganda di HTS non parla del grande Stato islamico, di supremazia sunnita e di piani utopistici; i messaggi puntano invece verso la protezione del “loro” territorio e dei “loro” cittadini dalle angherie e dalla corruzione del governo di Assad, migliorando le relazioni con le comunità locali e altri gruppi ribelli. Approccio pragmatico che funziona.

Ma questa gestione “light” degli affari quotidiani non deve far dimenticare la loro fedeltà assoluta ai principi dell’estremismo islamista, le detenzioni arbitrarie, le torture. Negli anni il gruppo ha migliorato la dotazione militare e accolto nuovi adepti, in attesa dell’occasione di attaccare di nuovo. Adattandosi velocemente alle mutate condizioni geopolitiche, sfruttando la maggior vulnerabilità di un presidente ormai (quasi) solo al comando, hanno attaccato e vinto, destabilizzando ulteriormente un’area già compromessa.

Foto da Unsplash di Mahmood Suleyman

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