Un giorno del 1897 Sigmund Freud si trovava su un treno diretto in Bosnia ed Erzegovina e chiacchierando con uno sconosciuto compagno di viaggio a proposito di Orvieto, non riusciva a ricordare il nome “Signorelli”, artista a cui si deve il magnifico affresco del “Giudizio Universale” che si trova nel Duomo di questa città. Alla sua mente si affacciavano solo dei nomi sostitutivi: Botticelli o Boltraffio. Anziché ritenerla una semplice dimenticanza priva di rilevanza, Freud si soffermò invece sulle associazioni e i nessi che l’aveva preceduta.
Cominciò a pensare che poco prima stava conversando con il suo compagno di viaggio a proposito di alcuni atteggiamenti e usanze dei turchi, che allora abitavano la Bosnia ed Erzegovina, riguardanti il senso della vita, la fiducia nei medici e la sessualità.
In questo “viaggio nel viaggio” di associazioni, Freud pensò al rapporto tra Eros e Thanatos e, infine, alla notizia, ricevuta mentre era in villeggiatura sul Trafoi (Bol- traffio) che un suo paziente, con gravi disturbi sessuali, si era tolto la vita.
La dimenticanza del nome “Signorelli” sembrava essere una perturbazione dell’argomento “Giudizio Universale” a opera del precedente: l’associazione inconscia sulle usanze dei turchi catturò, distraendola, l’attenzione di Freud, ancora scosso dalla luttuosa notizia riguardante il suo paziente.
Qualche anno dopo, nel 1901, uscì la prima edizione di “Psicopatologia della vita quotidiana” in cui Freud cominciò a descrivere come le dimenticanze, le piccole distrazioni, ovvero i cosiddetti lapsus quotidiani, possano essere, insieme ai sogni, delle coordinate di viaggio verso l’inconscio.
Vedere senza essere visti
Nell’ultima e definitiva pubblicazione che risale al 1923 rivisitò e ampliò alcuni concetti fondamentali del funzionamento inconscio di ciascuno di noi.
Lapsus significa etimologicamente cadere, sdrucciolare. A ben guardare e a essere onesti, quando facciamo un lapsus qualcosa ci cattura, ci sofferma in quella distanza tra ciò che abbiamo detto, fatto, dimenticato e ciò avremmo voluto dire, fare, ricordare.
Qualche secondo ancora e forse potremmo avere la sensazione di “vedere senza essere visti”. Ma chi e che cosa?
Con i lapsus, cadiamo in una verità psichica nascosta e abbracciata dai nostri complessi. Questi costituiscono le parti strutturanti la psiche ma mentre per Freud designano qualcosa in cui precipita solo il rimosso e vengono considerati come fattori sintomatici di una psiche malata, per Carl Gustav Jung nei nuclei complessuali rintracciamo anche qualcosa che ha “ancora da divenire” e che in qualche modo ci spinge verso la nostra autenticità.
Per entrambi è comunque importante rendere consapevole il più possibile la conoscenza di questi complessi per evitare che prendano il sopravvento in modo eccessivo. Infatti, ormai siamo abituati a pensare che abbiamo dei complessi ma non al fatto che i complessi hanno noi. Quindi i lapsus sono quella voce, quel gesto, quel ricordo che abbiamo rimosso o che ancora non abbiamo visto. Sono come dei “soffi di vento” che spalancano la finestra sulla parte più profonda di noi. Discreti ma non troppo, fanno rumore quanto basta per attirare la nostra attenzione su qualcosa che abbiamo dimenticato o su qualcosa di noi che non vogliamo vedere. Se compresi possono dirci molto sul nostro conto, sono dei preziosi alleati!
Oggi, dopo un secolo dall’ultima edizione di Psicopatologia della vita quotidiana, siamo rovinosamente finiti a utilizzare spesso la parola lapsus come sinonimo di errore.
Per esempio, ultimamente abbiamo sentito la Presidente del Consiglio affermare con soddisfazione che il tasso di disoccupazione femminile in Italia non è mai stato così alto (invece di “così basso!”) da quando è lei al governo e che questo dato indica parità di genere. E abbiamo inoltre sentito puntarle il dito e gridare con sicurezza: “al lapsus!”
Molto probabilmente, in realtà, si tratta di un errore; o, volendo essere realistici, di mera strategia politica, di un vizio voluto della comunicazione, utilizzato per spostare l’attenzione e tentare di creare nessi e collegamenti che in realtà non esistono perché privi di sostanza.
Se fosse stato un lapsus (se quindi lei pensasse veramente che il tasso di disoccupazione sia così alto!), consultando i dati statistici dovremmo aspettarci un tasso di disoccupazione femminile realmente alto, cosa che invece non è. Anzi, si è davvero ridotto negli ultimi anni (pur rimanendo sempre tra i più alti dell’Unione Europea). I dati recentemente divulgati dall’Istat, genano che il numero delle donne occupate raggiunge i 10 milioni 95mila, il tasso di occupazione arriva a quota 53%, (che comunque vuol ancora dire che lavora solo una donna su due, a fronte di un 69% in UE!) e quello di disoccupazione scende all’8,2%.
Ma il tasso di disoccupazione indica il rapporto tra occupati in relazione alla forza lavoro in generale (coloro che sono disponibili a lavorare tra i 15 e i 64 anni e quindi “occupati+disoccupati”), mentre il tasso di occupazione è calcolato in rapporto con la popolazione generale in età di lavoro 15-64 anni (occupati+disoccupati+inattivi).
Cosa non ci dicono i dati?
Andando a verificare il tasso di occupazione femminile ci si rende conto che, seppur il numero di donne che effettivamente hanno trovato impiego è aumentato negli ultimi anni, è in realtà inferiore a quanto venga divulgato ed enfatizzato. Questo è dovuto all’aumento delle donne inattive, la cui popolazione è rappresentata non solo da chi non ha mai cercato lavoro ma anche da chi lascia il lavoro; tra queste ultime si contano anche le donne che diventano madri e che, secondo i dati ISTAT, sono una su cinque.
Quindi, il nesso tra tasso di disoccupazione e parità di genere smette di avere spessore e si spezza nel momento in cui, per esempio, riflettiamo sulla qualità dell’occupazione femminile in termini di stabilità e retribuzione e ci focalizziamo su cosa realmente significhi “parità di genere”. Basti pensare che, secondo l’ultimo rapporto OCSE, le donne laureate, fino ai 34 anni di età, guadagnano ancor troppo poco e successivamente raggiungono solo il 58% di quello che guadagnano gli uomini a parità di competenze e laurea.
No, decisamente non sembra proprio un lapsus.
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