Il 14 ottobre 2024 è morto Philip Zimbardo, uno dei più influenti psicologi al mondo. È stato autore del famoso Esperimento della Prigione di Stanford che, insieme ad altri studi condotti tra gli anni ’60 e ’70 sul conformismo, ha fornito importanti basi per comprendere come si possano compiere atti terribili ubbidendo all’autorità. Questo filone di ricerca si inserisce nella scia della famosa nozione di “banalità del male” coniata da Hannah Arendt, che descriveva la facilità con cui i gerarchi nazisti giustificavano le loro azioni atroci affermando di aver “semplicemente” eseguito degli ordini. Tuttavia, forse il male non è così banale come sembra.

L’esperimento in breve

Philip Zimbardo e il suo team ricrearono una prigione simulata nel seminterrato dell’Università di Stanford, coinvolgendo 24 studenti universitari selezionati per interpretare due ruoli opposti: “guardie” e “prigionieri”. I partecipanti furono assegnati casualmente ai ruoli, e ogni gruppo ricevette simboli distintivi per rafforzare l’identità del proprio ruolo.

Le guardie indossavano uniformi, occhiali a specchio per evitare il contatto visivo e disponevano di manganelli simbolici che conferivano loro un’aura di autorità. I prigionieri, invece, venivano identificati unicamente tramite numeri, indossavano abiti umili e furono privati di ogni riferimento personale.

La simulazione, progettata per durare due settimane, degenerò rapidamente: in soli sei giorni, molte guardie iniziarono a mostrare comportamenti oppressivi e vessatori, mentre i prigionieri manifestarono sintomi di disagio emotivo e sottomissione. L’esperimento dovette essere interrotto a causa delle gravi conseguenze psicologiche che si stavano sviluppando.

Le conseguenze: ubbidire è facile

A partire dai risultati di questo studio, si è consolidata l’idea che le persone tendano a conformarsi passivamente e acriticamente sia alle istruzioni che ai ruoli assegnati dall’autorità, anche quando questi ruoli sono malevoli. Molte atrocità storiche sono state descritte come “crimini d’obbedienza”. Pensiamo al genocidio in Ruanda o al massacro di Nanchino, dove gli eserciti hanno perpetrato atrocità su ordine dei governi e degli ufficiali.

Di fronte a questi episodi, spesso ci rassicuriamo pensando che noi, a differenza degli aguzzini, non compiremmo mai gesti simili. Il cattivo, in fondo, è sempre qualcun altro. Tuttavia, nella nostra società, ancora legata all’archetipo dell’eroe buono, tendiamo ingenuamente a negare la nostra capacità di compiere il male, proiettandola sempre all’esterno.

Esperimenti come quello di Milgram, in cui i partecipanti credevano di somministrare scosse elettriche letali a un’altra persona — che in realtà era un attore! — hanno dimostrato che, in certe situazioni, fino al 65% delle persone si conforma agli ordini di uccidere.

Il male non è banale, è voluto

Ma quindi, il male è davvero banale? Siamo così ciechi e passivi di fronte agli ordini provenienti dall’autorità? Apparentemente, non siamo del tutto passivi.

Uno studio condotto da S.A. Haslam e S.D. Reicher, che mirava a replicare l’esperimento della prigione di Stanford, ha prodotto risultati inaspettati: detenuti e guardie si sono ribellati agli ordini del team di ricerca. Secondo Haslam e Reicher, contrariamente alle conclusioni di Zimbardo e alla nozione di banalità del male, l’ubbidienza dipende dall’identificazione con le credenze dell’autorità e, in particolare, dalla convinzione che gli ordini, per quanto malevoli, siano giusti e condivisibili.

Il male non è mai banale: è compiuto da chi, almeno per un istante, è convinto di fare la cosa giusta. E la tirannia dell’autorità non nasce da sola: è sempre sostenuta con entusiasmo da chi finisce per subirla e agire in suo nome.

La caduta di Lucifero, illustrazione di Gustave Doré per il poema “Paradiso perduto” di John Milton

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