Indisciplinato, svogliato, arrogante. Mario Balotelli torna in Italia e in Serie A per indossare la maglia del Genoa. Per provare a risollevare la squadra che fu visceralmente amata da Fabrizio De André.

Il calciatore, e l’uomo, forse più distante possibile dall’immaginario poetico costruito dal cantautore genovese. Eppure, allo stesso tempo, il più deandreiano degli antieroi odierni. In grado di dissipare il proprio talento cristallino e gettare al vento le aspettative di un popolo intero. In un mare di polemiche, litigi e incomprensioni. Una figura sempre in lotta con sé stessa e con il mondo che la circonda. In direzione ostinata e contraria, appunto.

Mi rendo conto che inserire Balotelli all’interno della stessa frase di De André può risultare blasfemo per i cultori più intransigenti del Faber. Ma sono proprio queste le etichette e le irreggimentazioni aprioristiche che il nostro ha ripudiato, canzone dopo canzone. E sono convinto che Fabrizio, con Mario, ci sarebbe quantomeno uscito a cena.

Detto questo, Balotelli è ancora un giocatore in grado di misurarsi e, perché no, fare la differenza nella Serie A di oggi? È ancora un calciatore sul quale investire? A queste domande, sinceramente, non ho risposta. In attesa del campo e delle sue inappellabili sentenze, quello che posso fare è immaginare ciò che SuperMario e il Grifone possono rappresentare, già oggi, l’uno per l’altro. E pure per tutta Genova. Attraverso le parole e i personaggi del più famoso dei tifosi rossoblù.

Il fannullone

Il ritorno di Balotelli (foto Genoa CFC)

Facile, fin troppo. Al di là delle antipatie e delle opinioni più o meno personali, l’unica certezza che possiamo avere su Mario è quella di aver sperperato una carriera che prometteva davvero di essere uno spartiacque per il calcio italiano. Ma non si sdegni la brava gente, se nella vita non riesco a far niente.

Come per il protagonista di uno dei primi singoli di De André, il problema non è mai stato la mancanza di talento, ma l’aver vissuto tutto, anche l’amore per il pallone, come un giorno di vacanza. Nelle ultime strofe lei torna, in una notte d’estate. Magari Balotelli ha già fissato l’obiettivo su quella del 2026.

Marinella

Quando Mina la interpreta nel 1964 regala a Fabrizio De André, che l’aveva composta un paio di anni prima, la celebrità nazionale. Il problema è intendersi su chi davvero sia Marinella. Con le sue parole Faber trasforma un tragico fatto di cronaca, il ritrovamento di una prostituta annegata, nella celebrazione di un puro amore. E viene da chiedersi se anche con Mario non siano state le parole (tante, troppe, onnipresenti, fin dai primi anni) a trasfigurarne l’immagine agli occhi dei tifosi. Facendoci innamorare di ciò che non è mai esistito, o di una storia vissuta solo un giorno, come le rose.

La città vecchia – Via del campo

La Genova di Fabrizio De André non è solo un luogo sulla mappa. Genova è un crogiuolo di vite, anime e storie che si disperdono tra gli anfratti della cittadella antica. Gli avvinazzati, il professore, la prostituta bambina, se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo. Tra i carrugi della Superba trovano accoglienza e pietà i diseredati e gli invisibili. La Genova cantata da De André restituisce dignità ai marinai erranti, magari anche a quelli che tornano in porto dopo anni di vagabondaggio tra le periferie del pallone.

Bocca di rosa

Anche qui, in prima lettura forse è tutto fin troppo facile. La notizia che vola di paese in paese, il campione irrequieto ostentato dai benpensanti… proviamo ad andare più in profondità. E a fare un augurio a Mario. Perché il calciatore conosciuto fino ad oggi non ha lasciato nulla dell’amore e della passione che mezza Italia riversa, settimana dopo settimana, sul pallone. A Balotelli non si chiede (e forse non si doveva mai chiedere) il doppio petto e la cravatta regimental da presentare al Tempio. Ma di calciare quella palla come se non fosse, solo, una professione.

Tito

Si dice che La Buona Novella sia il disco più “rivoluzionario” di De André, e Il testamento di Tito uno dei suoi lasciti più intensi. Il ladrone crocefisso al fianco di Gesù Cristo racconta i suoi comandamenti, risvegliando le coscienze cattoliche assopite di fronte ad una fede che sfuma nelle vuote consuetudini. Ecco, da questo punto di vista Balotelli è ancora a metà del guado. Immobilizzato da anni in una rivoluzione artificiale che lo ha portato a combattere battaglie insensate e a soccombere alle sue stesse inquietudini. Finché continuerà il suo personalissimo Why always me il rancore avrà sempre la meglio sulla pietà.

Teresa

Qui siamo noi a doverci schiarire le idee. A fare pace con le nostre illusioni, accettando i dolori e il peso della realtà. Balotelli è la nostra Rimini. Siamo noi Teresa, sospesi tra l’infatuazione estiva del 2012 e l’autunno di un ragazzo incapace di sostenere il peso delle proprie promesse. Sull’immagine di quel corpo da guerriero africano che ha appena abbattuto la Germania abbiamo costruito i nostri castelli. Per ritrovarci oggi, in un ottobre avanzato, a rincorrere le stagioni passate troppo in fretta. A chiederci chi sia, in realtà, il calciatore appena sbarcato a Genova. Con quel verso, che risuona ossessivo nella testa. Non regalate terre promesse a chi non le mantiene.

Il tributo dei tifosi genoani a Fabrizio De André

Hotel Supramonte

Per raccontare il sequestro subito e i mesi passati prigioniero in Sardegna, Faber rielabora il testo originale di Massimo Bubola. Ne viene fuori una delle sue versioni più liriche e ispirate. Un pezzo intimo, dove anche per i rapitori c’è ascolto e comprensione.

Mario Balotelli non è mai stato rapito, la sfortuna non si è mai accanita sulla sua carriera. Il suo Supramonte è un esilio autoimposto in campionati certamente inferiori alle sue reali possibilità. Stazioni che fuggono, una dopo l’altra, oltre l’orizzonte di un treno giunto, forse, alla sua ultima fermata. Con un bagaglio di certezze insipide. Perché domani sarà un giorno incerto, di nuvole e sole.

Il suonatore Jones

Il personaggio che chiude Non al denaro, non all’amore né al cielo. L’unico che De André chiama per nome. Uno di quegli esseri umani in grado di vedere nel mondo qualcosa di speciale. Che sia il ricordo di una donna nel turbinare della polvere oppure una sassata improvvisa da trenta metri a scagliare il pallone sotto la traversa. Perennemente in bilico tra vocazione e dannazione, il Jones di Faber e Balotelli combattono contro lo stesso demone: l’obbligo di dover ogni giorno offrire al pubblico la massima espressione del proprio talento. Il primo sembra trovare liberazione rinunciando alla sua arte, Mario potrebbe regalarsi due ultimi giri di valzer. Per non vivere di rimpianti è tardi, e il lasciarsi con ultimo ricordo positivo dipende solo da lui.

Il pescatore

Un solco lungo il viso come una specie di sorriso. L’immagine più famosa di Fabrizio De André è la summa finale del nostro viaggio. Il pescatore che non si cura se ad aver fame sia un povero diavolo o un assassino è lo specchio del dilemma interiore che ogni animo sportivo ha vissuto nei confronti di un atleta che, almeno una volta nella vita, è riuscito ad emozionarlo. La consapevolezza che, al termine del cammino, la bilancia tra attimi opachi e riflessi di gloria penderà decisamente verso i primi non ci impedisce di offrire sempre un’ultima occasione, un’ultima maglia.

Che ruolo rivestirà Mario Balotelli, come detto all’inizio, non sono in grado di saperlo. Se però ho in qualche modo compreso il messaggio che Fabrizio De André ha voluto trasmetterci, è che, in fondo, si tratta di un dubbio che non dobbiamo nemmeno porci. La giornata farà il suo corso e, alla luce del tramonto, scopriremo se ci sarà un sorriso sul volto del popolo genoano.

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