Ieri, alla stazione di Porta Nuova a Verona, si è consumato un tragico episodio che ha lasciato sgomenta la città. Diarra Moussa, un 26enne maliano che viveva in condizioni di grande fragilità psichica, è stato ucciso da un colpo di arma da fuoco sparato da un poliziotto. L’uomo, in evidente stato di agitazione, stava impugnando un coltello al momento dell’intervento delle forze dell’ordine, circostanza che ha portato all’escalation fatale.

Secondo le prime ricostruzioni, Moussa aveva manifestato già nelle ore precedenti un comportamento allarmante. Alle 5 del mattino, circa due ore prima del tragico epilogo, era stato protagonista di un altro episodio di agitazione, segnalato alle autorità. L’interrogativo che sorge spontaneo è se si potesse intervenire in modo diverso per prevenire la degenerazione della situazione. Forse, l’impiego di operatori sanitari o psicologici avrebbe potuto evitare che Moussa raggiungesse un punto di non ritorno, dove la sua condotta veniva percepita come una minaccia diretta alla pubblica sicurezza.

Moussa era conosciuto dai volontari della “Ronda della Carità” ed è stato uno dei 40 ospiti del “Ghibellin Fuggiasco”, una struttura destinata all’accoglienza di persone senza casa che proprio nei giorni scorsi aveva annunciato la sua chiusura per motivi di sicurezza. La sua storia, purtroppo, non è isolata: molti, come lui, vivono ai margini della società, sprovvisti di un luogo sicuro dove trovare rifugio e protezione.

La mancanza di una casa, un diritto fondamentale che viene spesso negato ai più vulnerabili, è una delle radici profonde di questa tragedia. Senza un sostegno concreto, soprattutto a livello psicologico e sociale, chi si trova in difficoltà finisce per essere sempre più isolato, con il rischio che il disagio mentale si trasformi in atti di disperazione.

La morte di Moussa deve accendere, quindi, una riflessione più ampia sul diritto alla casa e sui servizi di assistenza per le persone fragili, specialmente coloro che soffrono di problemi psichici. La domanda che molti si pongono è se sia giusto che, in mancanza di un tetto o di un sistema di aiuto efficace, si debba arrivare a una tragedia per attirare l’attenzione su situazioni di tale emergenza sociale.

E mentre sui canali social dei principali quotidiani cittadini si scatenano commenti a dir poco beceri e irripetibili su un ragazzo che ha perso la vita, non va al contempo dimenticato il dramma umano che ora coinvolge anche il poliziotto, autore del gesto fatale. Non sappiamo quanto fosse preparato a questo tipo di situazioni, ma in un momento di pericolo percepito, ha deciso di aprire il fuoco per difendersi e proteggere gli altri. La giustizia farà il suo corso, ma in ogni caso questa persona dovrà convivere per il resto della sua vita con il peso enorme di aver tolto la vita a un essere umano.

Anche in questo caso, resta aperto il dibattito: si poteva gestire l’intervento in modo diverso, prima che la situazione degenerasse in uno scontro mortale? Ci si chiede se non esistano altri strumenti, come la formazione specifica delle forze dell’ordine per gestire persone in preda a crisi psicotiche, o se fosse stato possibile coinvolgere professionisti della salute mentale già al primo segnale di instabilità emotiva.

La tragedia di Porta Nuova rappresenta un monito per riflettere su come la società affronta i problemi della marginalità e del disagio psichico, e su quali mezzi siano a disposizione per evitare che tali situazioni si risolvano con la violenza. Se vogliamo dare un senso alla morte di Moussa, cerchiamo di lavorare in modo che queste situazioni non capitino più.

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