Il 9 ottobre 1963 è una data che rimarrà impressa nella memoria collettiva dell’Italia e del mondo, a causa della catastrofe che colpì la valle del Vajont, situata tra Friuli Venezia Giulia e Veneto. Quella sera, un’enorme frana di circa 260 milioni di metri cubi di roccia si staccò dal Monte Toc e precipitò nel bacino artificiale creato dalla diga del Vajont, una delle opere ingegneristiche più imponenti del suo tempo. L’impatto devastante generò un’onda d’acqua immane che superò l’infrastruttura della diga, travolgendo i paesi circostanti e causando in pochi secondi quasi 2.000 vittime.

La diga del Vajont e il Monte Toc

La diga del Vajont, all’epoca una delle più alte al mondo, fu costruita tra il 1957 e il 1960 lungo il confine tra il Friuli Venezia Giulia e il Veneto, nelle vicinanze del paese di Longarone. Progettata per la produzione di energia idroelettrica, la struttura avrebbe dovuto rappresentare il culmine dell’ingegneria italiana. Tuttavia, le montagne circostanti, in particolare il Monte Toc, presentavano delle criticità geologiche non adeguatamente considerate. Numerosi esperti avevano già segnalato la presenza di fratture e movimenti tellurici nell’area, che lasciavano presagire il rischio di frane.

Il Monte Toc, situato sulla sponda meridionale del bacino, era considerato particolarmente instabile. Infatti, già prima del disastro, ci furono segni premonitori, come piccole frane e crepe nella montagna. Tuttavia, i responsabili dell’opera sottovalutarono la gravità di questi avvertimenti e la diga continuò ad essere riempita progressivamente d’acqua, anche oltre i normali limiti di sicurezza. E proprio l’incremento del livello del lago artificiale non fece che aumentare le pressioni sul Monte Toc, accelerando il disastro.

Foto da Flickr

La frana e l’onda mortale

Alle 22:39 del 9 ottobre 1963 – 61 anni fa – la montagna crollò in maniera devastante. Un’enorme porzione del Monte Toc scivolò nel bacino del Vajont, riempiendolo in pochi secondi. La massa di roccia cadde nell’acqua con una forza impressionante, generando un’onda gigantesca che superò la diga, alta 261 metri, come se fosse un semplice ostacolo. Nonostante la diga rimanesse in piedi, l’onda distruttiva, alta più di 250 metri, si riversò oltre il confine del bacino, scagliandosi sulla valle sottostante.

Il primo paese a essere colpito fu Longarone, che venne completamente spazzato via dall’onda in pochi istanti. L’acqua, insieme a fango e detriti, cancellò ogni traccia di vita e di costruzioni nel suo percorso. Paesi limitrofi come Castellavazzo, Erto e Casso furono ugualmente devastati. La violenza dell’acqua non lasciò scampo: edifici, strade, ponti e abitanti furono travolti e distrutti. Si calcola che morirono quasi 2.000 persone, tra cui intere famiglie. In molti casi, i corpi non vennero mai ritrovati.

Le conseguenze e il dolore collettivo

La diga del Vajont oggi nella foto da Unsplash di Mauro Grazzi

Il disastro del Vajont non fu soltanto una tragedia naturale, ma una tragedia annunciata. Le indagini successive, così come i processi che ne seguirono, evidenziarono responsabilità umane legate all’incapacità di prevenire un evento di cui si conoscevano i segnali. Diversi ingegneri e responsabili furono accusati di aver ignorato le analisi geologiche che indicavano la pericolosità dell’area. La società SADE (Società Adriatica di Elettricità), che aveva costruito la diga, venne considerata la principale responsabile, ma le colpe furono condivise anche con le autorità governative che avevano permesso la continuazione dei lavori nonostante i rischi evidenti.

Per le popolazioni locali, il disastro segnò la perdita non solo di vite umane, ma anche di interi villaggi, luoghi di affetto e memorie collettive. La ricostruzione fu lunga e dolorosa e il ricordo delle vittime rimane vivo ancora oggi. Ogni anno, il 9 ottobre, le comunità colpite si riuniscono per commemorare chi perse la vita in quella tragica notte.

La denuncia inascoltata di Tina Merlin

Un capitolo fondamentale nella storia del disastro riguarda il coraggioso lavoro della giornalista Tina Merlin, che cercò con tutte le sue forze di scongiurare la catastrofe. Nata nel 1926 e cresciuta tra le montagne bellunesi, Merlin era una corrispondente de L’Unità e sin dagli anni ‘50 si era occupata delle problematiche sociali ed economiche della sua regione. Quando iniziarono i lavori per la costruzione della diga, Merlin iniziò a denunciare pubblicamente i rischi di quell’opera.

Grazie alla sua tenacia e alla conoscenza del territorio, Merlin fu tra i primi a mettere in luce le criticità geologiche e strutturali del progetto, basandosi sulle testimonianze degli abitanti della zona e sugli studi scientifici che indicavano la pericolosità del Monte Toc. Nei suoi articoli, la giornalista segnalava come la montagna stesse dando segnali di instabilità, con frequenti piccoli smottamenti e crepe visibili ad occhio nudo. Merlin non esitò a puntare il dito contro la SADE e contro le autorità che permettevano la prosecuzione dei lavori nonostante i gravi dubbi sollevati.

Tina Merlin

Nonostante le sue continue denunce, Tina Merlin non solo venne ignorata, ma addirittura perseguitata. Nel 1959 fu denunciata per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”, e venne processata per aver cercato di screditare il progetto della diga. Merlin fu assolta, ma l’opinione pubblica e le istituzioni rimasero sorde ai suoi avvertimenti. Quello che doveva essere un allarme preventivo si trasformò in una tragica profezia inascoltata.

Dopo la catastrofe del 1963, Tina Merlin continuò a documentare la vicenda, raccontando il dolore e la rabbia delle popolazioni colpite. Scrisse il libro “Sulla pelle viva: come si costruisce una catastrofe”, in cui riportò dettagliatamente le sue inchieste e il calvario delle comunità locali. Tina Merlin rimane oggi un simbolo di giornalismo investigativo e di denuncia civile, la voce di chi cercò disperatamente di evitare una tragedia che si poteva prevenire. La sua figura è ricordata come esempio di integrità e coraggio di fronte all’indifferenza e all’inerzia del potere.

La lezione del Vajont

La catastrofe del Vajont rappresenta uno degli eventi più drammatici della storia italiana del dopoguerra. Nonostante i progressi tecnologici e ingegneristici dell’epoca, il disastro dimostrò come l’ambizione umana non possa mai prescindere dal rispetto della natura e dalla conoscenza scientifica. Il Vajont è ancora oggi un monito contro l’arroganza dell’uomo nel confrontarsi con le forze naturali, e una testimonianza della necessità di ascoltare e interpretare correttamente i segnali che la terra ci manda.

In questo senso, il Vajont non è solo una storia di dolore, ma anche un’opportunità di riflessione su come la sicurezza, la tutela ambientale e la prevenzione dei disastri naturali debbano essere sempre poste al centro di qualsiasi progetto di sviluppo. Solo attraverso un approccio consapevole e responsabile possiamo evitare che tragedie come quella del 1963 si ripetano.

Il disastro del Vajont resta uno degli episodi più cupi e dolorosi della storia italiana. La tragedia che colpì Longarone e gli altri paesi della valle del Piave ci ricorda quanto fragile sia l’equilibrio tra uomo e natura, e quanto possa essere devastante ignorare i segni di allarme. A oltre 60 anni dall’evento, la memoria di quelle vittime continua a vivere nelle commemorazioni e nelle iniziative a loro dedicate, un tributo a chi perse la vita in uno degli episodi più drammatici del secolo scorso.

“Suite for Vajont” del compositore e pianista Remo Anzovino

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