Venerdì 27 Settembre al palazzo della Gran Guardia di Verona si è svolta la cerimonia di apertura della prima edizione di Wunderkammer, il nuovo festival letterario, in corso fino a oggi pomeriggio, nato da un’idea dalla casa editrice Neri Pozza.

Wunderkammer si traduce letteralmente in italiano come “camera delle meraviglie” o “gabinetto delle curiosità”: ossia quelle piccole stanze o studioli che fin dal XVI secolo erano adibite a raccogliere e a mostrare ai visitatori oggetti esotici e bizzarri provenienti da tutto il mondo.

Questo interesse per lo stupefacente e il diverso diventa la struttura stessa di questo festival, presentandosi a tutti gli effetti come “camera delle meraviglie in cui arti e linguaggi differenti possano fondersi con armonia”.

Il filo conduttore che infatti lega questi tre giorni consecutivi di incontri con autori italiani ed internazionali è il tema delle “Fusioni”, scelto perché meglio interpreta il carattere eclettico della casa editrice. Neri Pozza Editore si infatti è distinto nel tempo non solo per aver pubblicato grandi autori italiani, come Eugenio Montale e Dino Buzzati, ma anche per aver lasciato ampio spazio alla narrativa straniera.

Hiroko Oyamada e la difficoltà di diventare genitori

L’interesse per la scena letteraria internazionale, e in particolare giapponese, si riconferma con il primo ospite della giornata di sabato 28, l’autrice Hiroko Oyamada, che ha presentato il suo nuovo libro Donnole in soffitta (Neri Pozza, 2024) in uscita in libreria per il mese di settembre, in un dialogo moderato dalla giornalista Ludovica Lugli e tradotto da Yumiko Yamamoto.

Nata a Hiroshima nel 1983 e laureatasi in lingua e letteratura giapponese nella sua città natale, Hiroko Oyamada non si è dedicata fin da subito alla scrittura come mestiere, ma si è di certo fatta notare dalla sua prima pubblicazione. Il suo esordio La fabbrica (in originale Kōjō, Neri Pozza, 2021) ha ricevuto il Premio Shincho per i nuovi scrittori e il Premio Oda Sakunosuke, ma è stato il suo secondo romanzo La buca (in originale Ana, Neri Pozza, 2022) a consacrarla come autrice di rilievo, facendole vincere il prestigioso Premio Akutagawa, ottenuto nel 2013.

Il suo ultimo romanzo arriva in Italia grazie allo sforzo del traduttore Gianluca Coci, e nonostante la copertina possa essere definita kawaii (“adorabile” in giapponese) come afferma la stessa Lugli, nasconde in realtà temi ben più delicati e complessi, come quello della genitorialità.

La prima edizione del Festival Wunderkammer, ideato dalla casa editrice Neri Pozza, si tiene a Verona tra venerdì 27 a domenica 29 settembre al palazzo della Gran Guardia. Foto Sara Begali.

Il mistero attorno alla nascita

La storia si sviluppa nell’arco di tre racconti che presentano sempre lo stesso nucleo narrativo: una coppia di coniugi ormai avanti con l’età che non riesce ad avere figli. La voce narrante è quella del marito, che a differenza della moglie, ormai ossessionata dal trovare una soluzione al problema, non è veramente sicuro di voler diventare genitore, ma decide di seguirla nei suoi continui e disperati tentativi di aumentare la loro fertilità.

Nonostante ogni racconto sia di per sé concluso (l’autrice racconta che, come d’uso nel campo editoriale giapponese, ogni storia è apparsa singolarmente su una rivista specializzata e solo successivamente sono state accorpate in un romanzo unico), il legame tra i vari episodi si sviluppa durante le tre cene tra i due protagonisti e altri personaggi, che hanno invece avuto successo nell’allargare la famiglia.

Nel primo episodio si tratta di Urabe Shuzo: uno strano (e a tratti inquietante) scapolo proveniente da una famiglia benestante, appassionato di pesci tropicali ed ex proprietario di un negozio specializzato, che annuncia all’improvviso di aver avuto una bambina da una ragazza molto più giovane.

Nella seconda storia è Saiki, l’amico storico del protagonista, ad essersi sistemato con Yoko e ad essersi trasferito in una tipica casa di montagna giapponese che è tuttavia infestata da delle donnole comparse all’improvviso, animali che danno titolo al romanzo. Nel terzo racconto è di nuovo la coppia di Saiki e Yoko ad aver finalmente avuto una bambina, Yukiko, e ad invitare di nuovo i protagonisti nella casa ormai disinfestata per conoscerla.

Da sinistra, al traduttrice e interprete Yumiko Yamamoto, la scrittrice giapponese Hiroko Oymada e la giornalista Ludovica Lugli alla prima edizione del Festival Wunderkammer. Foto Sara Begali.

Cosa si cela dietro le poche nascite

L’autrice racconta di aver preso ispirazione da un vero invito a casa di un suo conoscente appassionato di pesci tropicali che aveva appena avuto un figlio: l’immagine del bambino della coppia che dormiva rischiarato dalla luce degli acquari l’ha colpita così profondamente da permetterle di superare la crisi creativa che stava vivendo e di riprendere a scrivere seguendo il nuovo tema della maternità.

In Giappone, come in altri Paesi, la percentuale di nascite è al minimo storico ed è invece sempre più in aumento il numero di donne che decide di non avere figli, mettendo in crisi le stesse unioni matrimoniali. Nonostante quindi si parli di genitorialità, Oyamada ribadisce come il peso del far nascere e crescere un figlio ricada sempre più sulla madre che sul padre, poiché sarà lei a doversene occupare lasciando il lavoro se necessario.

«Una volta avere figli era una conseguenza immediata del matrimonio, ora è diventata una scelta se è la donna a doversi occupare di tutto» dichiara la scrittrice. Il disaccordo tra marito e moglie emerge chiaramente nel secondo racconto in cui sono protagonisti le donnole, ma una risposta chiara su questo problema, così come un vero confronto o dialogo, non viene dato da nessuno dei due: la moglie diventa ossessionata dalla neonata di Saiki e Yoko, e non trova spiegazione né soluzione al suo problema fino alla comparsa del deus ex machina nell’ultimo racconto.

Un dialogo difficile

Oyamada ammette inoltre di amare molto gli animali e di come essi siano uno delle principali motivazioni che la spingono a scrivere nuove storie. Avendo vissuto e continuando tuttora a vivere in campagna, è sempre stata interessata a capire cosa pensassero e perché si comportassero in un certo modo. Tuttavia, l’incomunicabilità tra uomo e animale che la frustrava tanto l’ha resa più consapevole di come lo stesso problema sia presente anche nel mondo delle relazioni tra le persone.

«In altre parole – afferma Oyamada – non è che in quanto esseri umani non riusciamo a comprendere gli animali. In quanto esseri umani non riusciamo a comprendere proprio niente, inclusi noi stessi e gli altri».

In Donnole in soffitta è quindi lasciato ampio spazio agli animali, come appunto la colonia di piccoli mammiferi che infesta la casa di montagna e nucleo dell’intera narrazione, ma sono anche le numerose razze di pesci tropicali citate a creare un collegamento tra i racconti.

Alcuni di essi infatti, come gli innumerevoli discus o l’imponente arowana, mostrati e spiegati da Urabe nel primo racconto, vengono ritrovati dal lettore anche nell’ultimo episodio, quando Saiki rivela al protagonista di continuare a coltivare il suo “vizio” tenendo in casa vasche in cui vengono allevati gli stessi pesci e la loro progenie.

Gli animali, specchio delle nostre ossessioni

L’ossessione per la fertilità delle coppie di questi esemplari, che devono vivere in certe condizioni e generare un certo numero di uova per essere considerate sane, si sovrappone a quella della coppia protagonista, che da un allevatore non sarebbe considerata di successo.

La stessa colonia di donnole che prolifera senza controllo viene estirpata secondo un rimedio giapponese raccontato dalla moglie, il quale prevede di annegare solo la femmina, perché è su di essa che si basa la famiglia.

La copertina del libro di Hiroko Oyamada Donnole in soffitta, Neri Pozza, 2024.

Ognuna di queste storie viene letta nel dubbio che gli avvenimenti siano reali oppure frutto di un sogno, o più precisamente un incubo, come quello fatto dal protagonista nell’ultimo racconto.

Si tratta di una caratteristica tipica di molta letteratura giapponese, ossia un realismo magico che non viene però mai confermato: la percezione di un limite o di una soglia che ci separa da altro e che, forse, viene ad un certo punto superata senza che il lettore se ne sia accorto.

Lo dimostra la stranezza di molti dei personaggi di Oyamada e dei loro comportamenti, il fatto che le donnole compaiano e scompaiano all’improvviso senza una vera e propria spiegazione, ma anche la surreale comparsa nell’ultimo racconto di una vicina che sembra possedere poteri sovrannaturali. Secondo l’autrice non c’è però una vera separazione tra il nostro mondo e un altro, tra la quotidianità e la stranezza.

«In realtà la nostra vita comprende sempre qualcosa di strano, e forse anche della pazzia. Siamo noi che vogliamo far finta di non accorgercene o vogliamo credere fino in fondo che la nostra vita sia normale e banale. È quello che cerco di descrivere nei miei romanzi. Non è tanto la storia che trasmette questa sensazione, ma la magia delle parole».

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