Federico Crosara è un atleta paralimpico della Nazionale Italiana di Tennistavolo. Veronese, classe 1977, è l’unico della squadra azzurra presente a Parigi 2024 non professionista. Ingegnere, oggi dipendente di un importante istituto di credito, Crosara si era già dedicato al tennistavolo da ragazzino, sport che ha ritrovato in età adulta con un sogno da inseguire: qualificarsi alle Paralimpiadi. Dopo tanti anni di allenamenti, rinunce, tornei in ogni parte del mondo, finalmente ha raggiunto il suo obiettivo partecipando alla spedizione di Parigi 2024.

Federico, partiamo da un suo commento a bilancio della spedizione olimpica del tennistavolo. Siete tornati soddisfatti?
«A livello di squadra credo non potessimo aspettarci di meglio. Abbiamo conquistato quattro medaglie di cui due d’oro, siamo veramente felici anche perchè questi risultati ci hanno portato al quinto posto nel medagliere della disciplina. Certo, le medaglie non dicono tutto, ma di sicuro bisogna riconoscere che in uno sport dominato storicamente dalle scuole asiatiche, conquistarne quattro sia un fatto di assoluto prestigio. Vorrei poi precisare, visto che a volte si dimentica o non si ha informazione adeguata al riguardo, che il tennistavolo in ambito paralimpico sia una delle tre principali discipline al mondo, la concorrenza è spietata.»

Ci spieghi meglio questo aspetto che, in effetti, credo non sia conosciuto. Come mai in ambito paralimpico il tennistavolo gode di tanto seguito?
«Questa disciplina è molto democratica. Non c’è bisogno di grandi strutture per praticarla e nemmeno servono ingenti somme di denaro. Basta la propria carrozzina, una racchetta, un tavolo. Al contrario di altre discipline più elitarie alle quali non è facile avere accesso, men che meno per poterle praticare a lungo. Inoltre il tennistavolo, così come il nuoto, sono attività che vengono proposte in sede riabilitativa e post traumatica, a prescindere che poi queste vengano affrontate in forma agonistica. Ne consegue che la concorrenza è molta e sarà sempre più così. La scuola asiatica rimane un riferimento assoluto, ma poi i praticanti vengono da molte parti del mondo. A Parigi c’era un rappresentante di Vanuatu, uno delle Figi, addirittura una irachena ha vinto una medaglia d’oro. Credo che questo fatto dica molto sulla penetrazione del tennistavolo in ambito paralimpico.»
Detto dei risultati di squadra, da un punto di vista sportivo la sua Olimpiade come è stata?
«Sono partito dall’Italia dopo aver raggiunto una qualificazione abbastanza tranquilla, grazie ad un periodo di forma che rappresenta un po’ la mia miglior fase di carriera. Ero fiducioso, ma anche sereno nel mio ruolo di outsider. Alla vigilia mi ero posto l’obiettivo di riuscire a giocare almeno un match che potesse mettere in palio la zona medaglie. Non era scontato, ci sono riuscito. Certo, arrivare lì e poi perdere, pur contro il futuro campione olimpico e dopo averlo portato al quarto set, lascia un po’ l’acquolina in bocca di quello che poteva essere. In ogni caso, torno molto soddisfatto. Il tennistavolo è uno sport di confronto: puoi essere al tuo meglio, ma se l’altro fa altrettanto o di più, perdi. Ci sta.»
Lei è arrivato alla qualificazione olimpica dopo un lungo percorso, raccontaci quali sono stati i momenti chiave?
«In effetti è da tre Paralimpiadi che cerco di qualificarmi. Sono l’unico della squadra che si allena solo cinque volte a settimana e che raggiunge il gruppo a Lignano (dove ha sede il centro federale) per due week end al mese. Gli altri sono professionisti, riescono ad allenarsi sei ore al giorno almeno due giorni su tre. Eppure, prima delle Paralimpiadi di Tokio avevo davvero accarezzato il sogno di qualificarmi. Ero andato vicinissimo al traguardo, ma persi la partita decisiva 2-3 contro un thailandese che avevo già battuto poco prima. Rimasi fuori per una mangiata di punti e ci misi parecchio a riprendermi. Di conseguenza, devo essere sincero, non è che mi sia goduto molto il percorso di avvicinamento a Parigi 2024. Non ho vissuto bene la fase di qualificazione. Per me è stata poco divertente, colpa della pressione, ero io a mettermela. Per fortuna non è stato deciso tutto all’ultima gara come per Tokio.»
Ora che è tornato a casa, che ha vissuto le Paralimpiadi, si è domandato se n’è valsa la pena?

«Questa domanda ho cominciato a pormela fin dalla vigilia, prima della partenza per Parigi, forse già poco dopo essermi guadagnato il diritto a parteciparvi. Oggi, se devo fare la somma di esperienza sportiva e umana, pur con tutte le rinunce che questo percorso inevitabilmente ti porta a fare, devo dire: sì, ne è valsa la pena.»


Torniamo con la mente alle Paralimpiadi e a quello che ha vissuto. A Parigi si è dilettato a curare un diario paralimpico sui social network, dove ha raccontato in maniera molto ironica diversi momenti e in particolare le cerimonie di apertura e chiusura. Intende fare il blogger nel futuro?
«Il diario è nato a seguito delle tante richieste di parenti e amici di avere aggiornamenti e racconti. Essendo un pessimo fotografo, ho preferito virare sulla “penna” e, secondo mio stile, riportare le mie emozioni e il vissuto olimpico in chiave ironica. Stavo bene, ero di buon umore, ho deciso di scrivere con taglio scherzoso, così come eravamo tutti noi.
Quanto alle cerimonie, devo dire che quella di apertura ha un fascino e una suggestione incredibile. Lunga è lunga, eh! Ci hanno radunato alle 17 per entrare allo stadio alle 21.30, però devo dire che avverti la centralità dell’atleta. La folla oceanica che ci applaudiva sugli Champs Elisee, l’ingresso a Place de la Concorde (emozionante a livello scenografico) e lo sfilare nello stadio davanti al Presidente Sergio Mattarella, sono momenti che mi porterò dentro. La cerimonia di chiusura invece è dominata da un’atmosfera da “rompete le righe”, non si sfila, molti atleti sono già rientrati. E poi pioveva. Diciamo non memorabile.»
Quali sono state altre sue emozioni olimpiche che vuole condividere?
«Senza dubbio, quando i nostri compagni di squadra hanno conquistato le medaglie. In particolare quando Federico Falco è andato a podio. L’ho accolto in palestra anni fa, abbiamo vissuto tanti momenti insieme, devo dire che pensavo di avere un cuore duro, da ingegnere, da bancario. E invece, la sua medaglia mi ha commosso.»
Abbiamo parlato del meglio di Parigi 2024 e della sua Olimpiade. Ci sarà però qualcosa che l’ha delusa, o no?
«Si è parlato molto delle camere, dei letti di cartone, della Senna inquinata. La mia esperienza, però, è stata molto positiva. Ottima logistica, professionalità organizzativa incredibile, stanze decorose, così come la mensa. Credo che siano state delle ottime Paralimpiadi. Forse per il fatto che sono le mie prime non sono del tutto obiettivo e non ho metri di paragone, ma devo dire che sono state pochissime le cose deludenti. Ne volete una? Mi aspettavo un villaggio olimpico più bello esteticamente.»
A proposito di mensa. Raccontava che proprio ad una colazione haa avuto modo di conoscere uno dei personaggi di questa Paralimpiade. Ci può riassumere questo incontro?
«Un giorno in mensa mi sono imbattuto in Morteza Mehrzad, atleta iraniano di sitting volley. Un ragazzo di 247 cm. Era in coda dietro di me. A quel punto ho cominciato a chiedermi cosa potesse mangiare un uomo di quelle dimensioni e quindi, facendo colazione, mi sono messo a spiarlo. Si sa che in Francia le baguette non mancano mai e la mensa olimpica non faceva eccezione. L’iraniano ne prese tre, le taglio tutte e le farcì con la nutella, non avanzando nulla. Fantastico.»


In chiusura cosa intende fare nel futuro. Los Angeles può essere un nuovo obiettivo o è soddisfatto del suo percorso e pensa di chiudere qui?
«Tra Tokio e Parigi sono passati tre anni. Di fronte, invece, c’è un normale quadriennio olimpico. Quattro anni non sono pochi. Le considerazioni da fare sono tante. I pro: mi sono profondamente divertito a competere alle Olimpiadi. Avversari di livello, suggestione olimpica, pubblico numerosissimo (5/6 mila persone) e non nascondo di non avvertire un inizio di parabola discendente data dall’età, anzi. Sto giocando bene, mi sento al mio best e la passione è quella di sempre. I contro: le rinunce sono tante, non tanto per me, ma per la famiglia e chi mi sta intorno. Il tempo dedicato per un sogno olimpico è chiaramente rubato ad altro. La famiglia, devo dire, mi sta incentivando a continuare. Anche questa cosa… devo capirla bene perché evidentemente vogliono tenermi fuori di casa il più possibile. Scherzi a parte, deciderò con molta razionalità e una quota parte di emotività come è nel mio carattere. Essere arrivato vicino a medaglia mi ha gratificato da un lato, dall’altro mi ha tenuto aperta una questione medaglia che tutto sommato può essere intrigante. Vedremo nei prossimi mesi. Quello che è certo è che non si può mollare e ripresentarsi tra due anni a rincorrere la qualificazione. Il sistema non lo consente. Se deciderò di proseguire, dovrò impegnarmi a rimanere al top per un quadriennio.»

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