Da quasi un anno proseguono gli attacchi di Israele nella Striscia di Gaza e molti hanno ormai rinunciato a contare le migliaia di morti e feriti. Due milioni di civili, specie donne e bambini, che vengono sballottati da come greggi di pecore sospinte dal bastone del pastore in una nuova porzione del recinto di pascolo. La comunità internazionale che chiede a Israele di fermarsi, di mostrare pietà e come risposta assiste ad altri bombardamenti, altra violenza. A cellulari che esplodono. In un Paese sovrano.

Israele si sente in pieno diritto di fare come fa, impermeabile a versioni diverse o consigli e raccomandazioni di alcuno. Va avanti col programma, forte del sostegno del suo alleato principale, gli Stati Uniti, e dell’ignavia o sudditanza degli altri. Ma qualcosa si muove e ora un nuovo elemento inchioda lo Stato ebraico e tutto il mondo alle rispettive responsabilità verso il diritto internazionale e le istituzioni che lo proteggono. Facciamo un breve passo indietro.

Maggio: nuovo status della Palestina in sede ONU

Il 9 maggio 2024 l’Assemblea Generale approva una mozione sulle “Azioni illegali di Israele a Gerusalemme Est e nel territorio palestinese occupato”, in cui si dichiara che lo «Stato di Palestina è eleggibile a diventare membro delle Nazioni Unite ai sensi dell’Articolo 4» e si raccomanda al Consiglio di Sicurezza di riconsiderare il rifiuto del mese precedente e iniziare le pratiche di ammissione.

Nel riaffermare il «diritto dei Palestinesi all’autodeterminazione in uno Stato indipendente», l’Assemblea garantisce, in via eccezionale, alla Palestina alcune prerogative normalmente escluse a un mero “Stato osservatore”: diritto a presenziare alle riunioni, commentare e ribattere a commenti altrui, proporre mozioni. La delegazione palestinese può sedersi, nel famoso “ordine alfabetico” tra gli Stati membri e i suoi diplomatici hanno gli stessi diritti di tutti gli altri, tranne ovviamente il diritto di voto in Assemblea.

La Corte de L’Aja – Foto di Barbara Salazer

Luglio: ICJ vs Israele

La ICJ (Tribunale internazionale de L’Aja) rilascia una “opinion” in cui dichiara che la «continuata presenza di Israele nel territorio palestinese occupato non ha fondamento legale e deve interrompersi quanto prima». In 80 pagine, i 15 giudici fanno un elenco esaustivo delle azioni di Israele che violano le norme internazionali, tra cui l’espansione dei coloni in Cisgiordania, lo sfruttamento delle risorse naturali, il controllo sulla terra e le discriminazioni contro i palestinesi. La Corte afferma che «Israele non ha sovranità sui territori e blocca il diritto dei palestinesi all’auto-determinazione».

Inoltre, la pronuncia della Corte va a toccare la comunità internazionale, in quanto «le altre nazioni sono obbligate a non fornire aiuto o assistenza nel mantenimento di questo abuso di potere». Tradotto dal legalese, significa che gli Stati non devono fornire assistenza, armi, finanziamenti, commercio. Non devono avere scambi con Israele che supportino l’occupazione illegale. Chi aiuta è complice, sembrano suggerire i giudici nella loro pronuncia non vincolante. Reazioni a questo richiamo formale da parte dei “buoni”? Nessuna. Business as usual.

Settembre: status ONU per lo Stato di Palestina

Mercoledì scorso, l’Assemblea Generale è tornata a deliberare sulla guerra israeliana contro Hamas. Anche questa risoluzione non è vincolante, ma rappresenta un importante passo nella giusta direzione. Redatto, per la prima volta nella storia, dalla delegazione palestinese, il testo è stato approvato con ampi margini dai 193 Stati membri, anche da alcuni che in passato si erano schierati diversamente.

All’interno vi si trova una feroce critica al comportamento di Israele, impermeabile ai richiami umanitari e imperterrito nelle azioni militari, anche fuori dai confini iniziali. Si chiede che «Israele ponga fine senza indugio, e comunque entro 12 mesi, alla sua presenza illegale sul territorio palestinese occupato, atto che costituisce violazione delle responsabilità internazionali».

Il monumento della Pace a L’Aja – Foto di Barbara Salazer

Nel dettaglio, si spiega che Israele deve «ritirare l’esercito, cessare qualsiasi nuovo insediamento, evacuare i coloni dalle terre occupate e smantellare parti del muro che ha costruito nella West Bank». Israele deve inoltre «restituire la terra e le proprietà immobili, i beni sequestrati a partire dall’occupazione del 1967, permettere ai profughi di tornare ai luoghi d’origine e di risarcire i danni causati dall’occupazione».

Il ritorno a casa è un tema dominante nella storia palestinese, uno dei fondamenti dell’ideologia perversa di Hamas e il fine ultimo delle preghiere e lotte palestinesi. Lo è fin dalla Nakba del 1948, di fatto “autorizzata” proprio da una risoluzione ONU, a cui la presente sembra fare ammenda.

La votazione

124 nazioni hanno approvato, 43 si sono astenute e 14 hanno rigettato la proposta. Tra queste, oltre al diretto destinatario, si contano gli alleati di sempre (Stati Uniti) ma anche nuovi amici, come l’Argentina di Javier Milei e l’India di Narendra Modi, più interessati a sviluppare i rapporti commerciali che ai diritti umani. In Europa, votano no soltanto Repubblica Ceca e Ungheria.

A favore, invece, ben otto membri UE (Francia, Belgio, Spagna, Portogallo, Grecia, Norvegia, Irlanda e Finlandia), oltre a numerosi player mondiali, tra cui Giappone, Turchia, Nuova Zelanda e i BRICS con eccezione della citata India controcorrente.

Don Abbondio and friends

Gli astensionisti, tra cui spiccano Regno Unito, Germania e Italia, usano di solito la scusa del “diritto di Israele a difendersi”. In molti casi, la giustificazione viene dichiarata anche in questo caso, quando ormai le azioni di Israele sono state condannate dalla Corte di Giustizia come contrarie alle norme internazionali.

Eppure c’è differenza, difficile non vederla, tra un atto di difesa proporzionato (concetto mai applicato in settant’anni da Israele) e l’uccisione attiva e continuativa di civili, peraltro privati delle necessità primarie e costretti a una fuga senza fine.

Un’alleanza a doppia corsia

Gli alleati storici degli USA e molti membri dell’Alleanza Atlantica si sono astenuti anche mercoledì, citando in coro a giustificazione il fatto che nel documento non si cita il diritto di Israele a difendersi. Nessuno dei Paesi di cui abbiamo verificato le dichiarazioni espande il concetto a spiegare in quale modo l’occupazione sistematica di territori fosse mai funzionale o necessaria alla difesa di Israele.

Washington formalmente «rispetta il ruolo della ICJ» ma ritiene anche che la risoluzione «non aggiunge nulla alla soluzione che tutti noi vogliamo, di due stati che vivono in pace, uno accanto all’altro». Già la formula alla John Lennon provoca prurito, sale poi il dubbio legato a quel “tutti noi” che sembra includere gli alleati. Quindi l’Italia, il cui Governo non ha neanche trovato il tempo di fare una dichiarazione di facciata, ma speriamo che i tempi di pubblicazione ci smentiscano, che almeno una frase vuota colmi la mancanza.

Foto di Barbara Salazer

Quando tanti Stati di fatto ignorano la Corte dell’Aja e continuano a sostenere in modi diversi una nazione nel perpetuale l’illegalità, si cammina su un filo sottile. Si perde l’occasione per rinnegare una volta per tutte il concetto che la forza abbia sempre ragione, si rimuove dalla Storia il tempo in cui ci si promise “mai più”.

Basterebbe ricordare che il principio etico fondamentale a guidare l’essere umano impone di “non fare male”. L’essere umano deve ricordarsi come si fa a essere umani.

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