Smitizza la figura del reporter, sebbene faccia questo mestiere da diciotto anni. Cristiano Tinazzi, giornalista freelance oggi a Verona alle 21 in Sala Birolli, dopo l’inaugurazione della mostra del fotoreporter Ciro Cortellessa, Vse Bude Ukraina (“Andrà tutto bene, Ucraina”), per presentare il suo libro Tutto questo dolore (Paesi edizioni, 2024), ha iniziato quasi per caso a occuparsi di conflitti.

O si potrebbe dire meglio che si è buttato letteralmente sulla scia di un grande interesse per gli Esteri: fresco di laurea in Storia con una tesi sulla nascita dello Stato di Israele vista attraverso la carta stampata americana, nel 2006 allo scoppio del conflitto tra Israele e Hezbollah decise di andare in Libano insieme a un amico fotografo.

«Un inizio casuale, sognavo di andare sul posto per vedere con i miei occhi e capire meglio i fatti, anche per riportare come facciano le persone a convivere con una guerra e a dare alla propria esistenza una qualche normalità. Mi mossi un po’ da sprovveduto, non mi filava nessuna testata, così non guadagnai quasi nulla, ma agli inizi ogni giovane giornalista investe del suo per aprirsi una strada».  

Dopo il Libano, per Tinazzi ci sono state tante altre esperienze professionali nell’area del Medioriente nord africano, l’Iraq, l’Afganistan, le primavere arabe, la Siria, il sud delle Filippine, sempre lungo i conflitti legati allo Stato islamico, e nel frattempo anche i reportage sulle rotte dei migranti, e gli approfondimenti anche di natura antropologico-culturale per il programma religioso evangelico “Segni dei tempi” della Radiotelevisione svizzera.

«Ho potuto girare il mondo raccontando i conflitti interetnici e interreligiosi e le storie di persone che lavorano per la pace. Nel 2015 ho iniziato a occuparmi di Ucraina, a cui mi sto dedicando dagli ultimi due anni e mezzo».

La presentazione del libro di Cristiano Tinazzi è organizzata da Malve di Ucraina Verona, Liberi Oltre le ilusioni Veneto, in collaborazione con Heraldo e Festival del giornalismo di Verona.

Da anni la stampa italiana ha sempre meno inviati e ha ridotto lo spazio dedicato agli Esteri: la causa è lo scarso interesse da parte degli editori?

«Gli inviati di guerra sono considerati di serie b, anche se ci sono stati in passato grandi nomi, tra cui amo ricordare Ettore Mo. Ma poi tutto è andato scemando: ho avuto la fortuna di frequentare l’ultima vecchia guardia di questo giornalismo come Alberto Negri, Ugo Tramballi, Vittorio Dell’Uva, Amedeo Ricucci.

Fino a qualche anno fa tutti i principali giornali avevano l’inviato, ma è una generazione scomparsa: è rimasto qualche sopravvissuto come Lorenzo Cremonesi, ultimo inviato speciale del Corriere, o Stefania Battistini e Francesca Mannocchi. Ora capita che nelle redazioni mandino a rotazione del personale preso da altri settori, che a volte si adatta bene alle situazioni, altre volte meno».

È un problema italiano o riguarda anche la stampa occidentale?

«In Italia non c’è volontà di investire nel settore editoriale, all’estero abbiamo il Guardian, El Pais, il New York Times, il Washington Post che usano freelance e soprattutto fotografi se non hanno inviati, e anche il prezziario è molto differente rispetto a noi. Però quando le redazioni italiane hanno bisogno chiamano i freelance: all’inizio della guerra in Ucraina erano a decine nel Paese, tra i corrispondenti televisivi 9 su 10 erano freelance.

Purtroppo l’attenzione verso gli Esteri in Italia è legata alla politica interna: se la notizia è funzionale al confronto politico interno allora ha un senso parlarne, altrimenti il tema finisce in secondo, terzo piano».

Ti è mai capitato che il tuo lavoro venisse contestato da una redazione per ragione di linea editoriale?

«A livello di radio o tv no: lavoro per la Radiotelevisione svizzera e non ho mai avuto imposizioni o critiche sul taglio dato a un reportage, non c’è mai stata intromissione. In Italia mi è capitato invece con un giornale con cui ho lavorato a lungo, che decise di fondere un mio reportage con quello di un altro senza avvisarmi.

Lavoravo lì da 11 anni ed era solito che il redattore ti avvisasse prima di operava cambiamenti, ma ora la velocità domina il mondo delle news e sono spariti anche i minimi criteri di correttezza professionale riconosciuti ai corrispondenti. Ma non capita solo a me».

Il titolo del tuo libro, Tutto questo dolore, dà il senso del peso che ci si trova a portare anche nella vita personale, come a dire che un reporter non può sempre restare indenne di fronte a tutto ciò che vede. A che bisogno risponde questo libro?

«Non pensavo di scriverlo, però mi è stato chiesto dall’editore di riportare le mie esperienze. Non volevo inizialmente, perché mi chiedevo cosa potessi aggiungere io a quanto già raccontato, tanto meno volevo fare l’ennesimo instant book.

Però nel 2020 durante la pandemia avevo iniziato un percorso di psicoterapia, e quindi a rivedere quanto avevo sperimentato tra scelte, perdite, traumi. L’essere stato risucchiato nel febbraio 2022 dal conflitto ha avvicinato il percorso che avevo iniziato con il dolore che ho trovato in Ucraina.

Ne è emersa una scrittura terapeutica, che è servita a me per raccontarmi ed elaborare attraverso il racconto, ma anche mi ha permesso di raccontare in modo più profondo e doloroso l’incontro con le persone e le loro vicende. L’empatia annulla a volte la distanza tra giornalista e la vicenda di cui è testimone».

Come ti difendi dalla propaganda ucraina per fare il tuo lavoro?

«Si sa che c’è, è inevitabile, per cui non mi affido mai a dichiarazioni del ministero della Difesa ucraino quando fa il bollettino giornaliero, ci sono strumenti indipendenti per sapere i dati su mezzi, uomini, movimenti. E più si conosce il contesto più si capisce se la notizia sia vera, manipolata o verosimile. In ogni caso se hai il tempo è sempre bene andare sul posto e verificare. La propaganda di guerra è una nebbia sempre presente, il giornalista deve essere in grado di essere obiettivo e denunciare quello che non va, anche se riguarda la parte per cui si solidarizza».

La giornalista Stefania Battistini e l’operatore Simone Traini sono stati richiamati in Italia dopo lo scoop a Kursk. Quanto pesa a tuo avviso l’ingerenza politica russa sulla scelta fatta dalla dirigenza Rai?

«La Russia ha ragione nel dire che si è trattato di una violazione territoriale, ed è normale che si avvii un procedimento. Da lì tutto il resto è solo una questione ideologica di attacco alla stampa. C’erano già stati giornalisti ucraini in quell’area russa occupata, poi sono entrati tutti dopo Battistini sono entrati tutti tanto che hanno dovuto organizzare dei dei media tour. Stefania ha fatto solo il suo lavoro.

Anche a me e ad altri colleghi è capitato di entrare in Siria o in Libia senza autorizzazione di ingresso, si va in primis per seguire la notizia e riportarla. La decisione di farla rientrare non credo sia stata per ragioni di sicurezza, perché se fosse rimasta in Ucraina non avrebbe avuto problemi, non ci sarebbero stati agenti infiltrati con l’obiettivo di colpire una giornalista, solo l’idea mi pare fantascienza.

La decisione a mio avviso è stata invece dovuta al forte contrasto tra la direzione del Tg1, che era d’accordo con la scelta di entrare a Kursk, e la dirigenza, che penso abbia temuto ripercussioni a Mosca sui corrispondenti e sulle relazioni con i diplomatici russi».

Tornerai in Ucraina?

«Voglio reincontrare diverse persone. Anche se ci parliamo via whatsapp, conosco volontari, civili, soldati, chi non vuole questa guerra e non la vuole fare, che vorrei rivedere presto. Non c’è nulla di romantico nel fare questo mestiere, in realtà l’unica cosa da tenere presente è che siamo tutti umani».

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