Tre film in concorso alla 81esima Mostra del Cinema di Venezia molto diversi tra loro, tre storie lontane nel tempo, tre spazi e luoghi differenti e un filo rosso che li accompagna: la perdita, la morte, il dolore.

Il regista brasiliano Walter Salles (ha diretto tra gli altri “I diari della motocicletta” sulle vicende del giovane Ernesto Che Guevara e “On the road” tratto dal libro di Jack Keruac Sulla strada), con “Ainda estou aqui” racconta la drammatica storia del deputato Rubens Paiva rifacendosi all’omonino libro di memorie scritto dal figlio Marcelo Rubens Paiva. 

È il 1971, Rio de Janeiro, Brasile: in piena dittatura la famiglia Paiva con cinque figli vive in una bella casa di fronte alla spiaggia, la vita sembra scorrere tutto sommato abbastanza tranquilla. Rubens Paiva, ex deputato del Partito laburista brasiliano e politico, si divide tra lavoro e famiglia e, di nascosto, insieme ad un piccolo gruppo aiuta i perseguitati in fuga e fa arrivare la corrispondenza alle famiglie dei prigionieri.

La dittatura è spietata: la quiete solo apparente viene distrutta dall’arresto in casa di Rubens, sotto gli occhi attoniti della moglie Eunice. La loro vita piena di affetto, amore, cultura, incontri si interrompe bruscamente e con quella violenza tipica degli arroganti.

Eunice improvvisamente conosce l’altro volto di suo marito e, con una forza immensa dettata dal cuore e dalla determinazione a salvaguardare la famiglia e i figli, reagisce con coraggio quando la arrestano insieme alla figlia Vera. La figlia viene liberata subito, mentre Eunice rimane in carcere alcuni giorni. Rubens invece diventa un desaparecido, sparito nel nulla, dicono sia scappato ma in realtà viene ucciso come altri 20mila.

Il coraggio di non dimenticare

Eunice allora prende decisioni importanti per la vita della famiglia: si trasferisce a San Paolo, si iscrive di nuovo all’università e dedica il suo impegno alla denuncia dei diritti violati.

L’attrice Fernanda Torres, protagonista della pellicola di Walter Salles “Ainda estou aqui”. Foto Biennale di Venezia.

Il film ha una forza potente e intensa, la storia vera si snoda all’interno della famiglia Paiva, segue le reazioni dei figli, non eccede nella terribile persecuzione della polizia brasiliana ma ne fa sentire tutta la pesantezza e la terribile ingiustizia. La chiave del film è Eunice, donna eccezionale che unisce un amore senza limiti ad un coraggio e una consapevolezza sempre più forti.

Ad interpretarla è una grande e splendida Fernanda Torres, con tale forza e dignità profonda che, speriamo, possa indicarsi come candidata alla Coppa Volpi femminile.

La morte e la sparizione segna quindi questo film d’impatto sui temi civili che sceglie di narrare un pezzo della tragica storia della dittatura brasiliana di quegli anni tramite gli occhi di una donna e di una famiglia, senza per questo toglierne spessore e coscienza storica. Un film diretto, che ritrae la gioia privata della famiglia, ma anche capace di trasmettere la tragicità del momento.

La fotografia dai toni caldi di Adrian Tejido entra nell’intimo della casa dei Paiva fino alla fine, e ne segna la ricostruzione, la famiglia continua a vivere oltre alla tragedia, e noi la percepiamo tramite lo sguardo di Eunice anziana in mezzo alla foto di gruppo.

“Vermiglio”, il lessico familiare di una memoria collettiva

Maura Delpero, regista bolzanina alla terza opera dopo il riconoscimento a “Maternal” del 2019, con “Vermiglio” ricorda il suo «paesaggio dell’anima, un lessico familiare che vive dentro di me. Un atto d’amore per mio padre, originario di Vermiglio, la sua famiglia e il loro paesino. Attraversando un tempo personale, il film vuole omaggiare una memoria collettiva». Parole della regista che ricordano, in parte, lo stile cinematografico di Ermanno Olmi e qualche citazione narrativa di Elsa Morante, tra dialoghi essenziali e momenti di silenzio, occhi di bimbi e femminili passioni adolescenziali. 

L’ambientazione del secondo film italiano in concorso alla Mostra del Cinema è quella di un paesino incastrato nella montagna trentina, in mezzo ai boschi e alla vita vera, che passa tra le mani e gli odori di una famiglia piena di figli e di lavoro, ma anche di libri e di studio. 

La regista Maura Delpero in concorso alla 81esima Mostra del Cinema di Venezia con il film “Vermiglio”. Foto Biennale di Venezia.

Il padre è ancora una figura autorevole, è lui il “Maestro” (Tommaso Ragno), l’unico che fa scuola a tutti, compresi i suoi figli, maestro fuori e anche in casa, che trova il tempo di ascoltare musica classica, mentre la moglie accudisce tutti e continua la sua opera materna. Un rapporto poco equilibrato, si direbbe oggi. Ma il film è un racconto familiare che si svolge nell’arco di quattro stagioni, durante l’ultimo anno della seconda guerra mondiale

Nella quotidianità a volte dura, a volte quasi sacrale, avviene uno stravolgimento con l’arrivo di un soldato siciliano ferito, accolto con iniziale sospetto dalla comunità. E tra il soldato e la figlia più grande del maestro, Lucia (Martina Scrinzi), nasce l’amore, un matrimonio e una bimba. 

Un racconto poetico anche nel narrare il dolore

Le tre sorelle, Lucia, Ada e Flavia, si sostengono nella loro diversità, entrano ed escono dalle trame della grande famiglia, in un rapporto servizievole con la madre e interessante con il padre, che tentano di emulare. Il fratello Dino invece è proprio altro dal padre, che tende a umiliarlo. 

La vicenda si complica quando il soldato-sposo di Lucia parte per la Sicilia con l’idea di ritornare. Uno strappo, una perdita, un dolore che scava il cuore della giovane. 

E qui pare esserci un filo rosso, ovvero la sensazione della perdita e della morte: muore infatti il piccolo bimbo, l’ultimo nato della famiglia, poi ne nascono altri due, uno della mamma e uno della figlia. La morte vive nella vita, e insieme, con l’aiuto di tutti e dell’alto, ci si solleva. 

Il quotidiano è narrato con dolcezza ma senza sbavature, i bimbi nei lettoni testa-piedi, le confidenze, le preghiere e l’attenzione alla presenza della spiritualità in ogni piccola azione. Ma anche la voglia di vivere e di scoprire il mondo oltre il sentiero del bosco. 

Un film a tratti raffinato e semplice, una fotografia incantata e un ritmo pacato, lento, quotidiano, segnato dalla musicalità del dialetto Trentino e dai colori mutevoli delle Quattro stagioni di Vivaldi. Nonostante il racconto si riveli un po’ troppo lungo, la Delpero ha sfoderato un’opera di grande interesse. 

Almodovar, voler morire ma senza farsi domande

Ultimo, per ora, filo rosso che lega questi film, è “The Room Next Door” di Pedro Almodovar, esplicito e chiaro sulla morte, sul fine vita, sull’eutanasia. 

Almodovar, riconosciuto autore di un linguaggio personale, intimo e fuori dalle regole, creativo, colorato e, spesso, trasgressivo (“Dolor y Gloria”, “Tutto su mia madre”, “Donne sull’orlo di una crisi di nervi”, “Parla con lei”, “Volver”), anima mediterranea che parla spagnolo, danza spagnolo e mangia spagnolo, questa volta si esprime in inglese, salta in America, sceglie New York, la metropoli più conosciuta al mondo e chiede a due attrici, due star americane, di recitare nel suo film. 

Tilda Swinton è Martha, l’amica Ingrid è Julianne Moore. Il film si snoda su loro due: Martha, ex reporter di guerra, ha un tumore all’ultimo stadio, la chemioterapia non risulta efficace e sa di avere poco tempo di vita. Ingrid è una scrittrice che viene a sapere per caso della malattia di Martha. 

La loro amicizia si era assottigliata con l’andare del tempo; ora il tempo diventa essenziale e Ingrid decide di ritrovare Martha e di rinsaldare il rapporto. 

Il dolore e la sofferenza si respirano nei loro dialoghi, soprattutto quando Martha racconta della figlia che è lontana e la lascia sola a scegliere. E fin qui potrebbe essere una storia di grande amicizia e di condivisione l’una dell’altra. Ma il racconto prende un’altra piega quando Martha azzarda una richiesta potente: ha deciso di morire con dignità senza aspettare il corso degli eventi, si sente pronta e chiede a Ingrid di accompagnarla in questo sinistro cammino fino alla fine. 

Da sinistra, Tilda Swinton, Pedro Almodovar e Julianne Moore alla Biennale Cinema, foto Biennale di Venezia.

Ingrid, inizialmente sconvolta, accetterà la proposta e vivrà con Martha la decisione della sua morte. 

Verso la fine senza mediazione

Il tema è scottante: la morte è vista nel film come una liberazione dalla sofferenza, come una decisione libera e autonoma. Martha ne studia con apparente calcolata razionalità tutti i dettagli per una preparazione accurata del momento: la pillola illegale, l’ultimo mese, la bellissima casa stile Frank L. Wright ai bordi di una pineta nei pressi di Woodstock, il vaso giallo di Venini sul tavolo abbinato al completo giallo dell’ultimo giorno, la porta rossa della camera aperta o chiusa, le lettere… Ingrid accetta tutto, con sofferenza, ma accetta. Ne parla col suo amico (John Turturro) e cerca la sua tutela legale. 

I dialoghi sono diretti, le citazioni da “The Dead-Gente di Dublino”, pellicola del 1987 di John Huston, rimandano ad una possibile meditazione sulla morte. Mancano però le considerazioni profonde sulla vita e quindi sulla fine della vita. Mancano le domande quelle vere, quelle di fondo, le domande ultime: dove andiamo dopo? Cosa c’è alla fine della vita? Perché viviamo se poi siamo costretti a morire? C’è Qualcuno oltre la nostra vita? 

Nei dialoghi tra le due donne non emerge mai una ricerca anche minima della propria individualità corporea e di quella spirituale. Eppure chi ha attraversato con qualche parente, con i genitori anziani o con qualche amico/a la fase prima della morte si è imbattuto in queste domande, con alcune di queste sensazioni. 

Pare insomma che non ci sia mai Dio da nessuna parte. Quindi i discorsi, le scelte sono solo date dalla ragione umana che a tutto risponde, anche se poi questo tutto controlla. Forse un modo superficiale per trattare il tema, dato che non emergono domande e non c’è dibattito.

Lo skyline di New York non basta per morire bene, bisogna anche scegliere il posto giusto. 

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