Kamala Harris, Vice Presidente degli Stati Uniti, ha chiuso la Democratic National Convention con un discorso applauditissimo, con cui accetta formalmente la candidatura per la presidenza.

Lei che «è stata sottovalutata praticamente in ogni situazione» ma non ha mai mollato perché «bisogna sempre combattere per il futuro dell’America», vorrebbe che gli elettori la aiutassero a «scrivere il prossimo capitolo nella storia più straordinaria mai raccontata».

La retorica zuccherosa è tipica di queste convention, poco più di una fiera della vanità in cui i contendenti mettono in fila testimonial instagrammabili e ricevono il famoso endorsement, l’appoggio di personaggi famosi, dello sport, dello spettacolo e, sì, anche della politica.

Quanto vale una convention

Si tratta di un costosissimo spottone elettorale, che punta tutto sulla fama e influenza degli invitati, su slogan ficcanti da condividere sui social e cori da stadio tra i partecipanti. Nelle convention enfasi viene data alla frase acchiappa-click, mentre scarseggiano i contenuti programmatici e manca completamente il contraddittorio.

Pochissime promesse elettorali, sostituite da temi accennati appena, citati in modo vago e interpretabile. Un po’ per dar da lavorare agli analisti politici e molto per evitare di essere “sgamati” dopo pochi mesi di nullafacenza, come invece accade nel Belpaese.

Al di là, quindi, della patacca colorata e affascinante vista a Chicago, cogliamo l’occasione per evidenziare alcuni spunti di riflessione sulle diverse traiettorie elettorali di Harris e Trump, verso la poltrona dello studio ovale.

Follow the money

L’entusiasmo per la possibile candidatura di Harris aveva già smosso i portafogli statunitensi prima dell’iconico discorso di Chicago. Jen O’Malley Dillon, responsabile della campagna, ha dichiarato che la somma totale ha superato 540 milioni di dollari.

Sono stati raccolti ben 82 milioni di dollari durante i quattro giorni di convention, un terzo dei quali da nuovi donatori e tra questi ultimi un quinto di giovani elettori e due terzi donne, cluster elettorali determinati per la possibile vittoria.

Anche Donald Trump si è sempre dimostrato un motivatore formidabile e può contare su un target sociale molto più abbiente, ma un solo mese di campagna Harris ha di fatto eclissato i 140 milioni scarsi dichiarati a fine giugno (prima della rinuncia del presidente uscente, Joe Biden) e anche i 327 milioni di dollari di agosto.

Foto da Unsplash di Connor Gan

Il voto “black

Trump non può farne a meno. Per lui, da bravo WASP elitario, è importante l’identità americana e non fa che mettere in dubbio quella di Harris, soprattutto per quanto riguarda la sua appartenenza alla comunità nera, i cui voti furono determinanti nel decretare la vittoria di Biden nel 2020.

Harris appartiene a quella comunità, vi si riconosce e ne viene ampiamente riconosciuta. Ormai tutti sanno della mamma indiana rimasta sola a inculcare nelle figlie il concetto del «do something», del fare qualcosa per cambiare una situazione spiacevole.

Pochi però sanno che Harris è ex alunna della Howard University, LA scelta nera per eccellenza, e che fa parte di un’importante sorority, Alpha Kappa Alpha, con altri illustri membri del passato, come Rosa Parks, Maya Angelou o Toni Morrison.

Dimentichiamo i filmetti sulle confraternite USA e pensiamo invece a una macchina di mobilitazione del consenso, e di denaro. Quando Harris fu candidata alla vicepresidenza, AKA raccolse centinaia di migliaia di dollari, riconoscibili dall’importo unitario di 19,08 (anno della fondazione). Furono organizzate le “stroll to the polls”, passeggiate in cui i membri della sorority vanno a raccogliere gli elettori neri per strada e nelle case, per accompagnarli alle urne, in corteo o ballando.

Ora il consiglio congiunto delle Divine Nine, le nove sorority più importanti, pur non potendo esprimere preferenza politica, ha rilasciato un comunicato in cui invita i quattro milioni di membri totali a una «mobilitazione straordinaria, per accogliere un momento storico straordinario».

Il voto “muslim

Fuori dalla sede della convention infuriano le proteste a sostegno della causa palestinese, ma l’argomento è troppo divisivo e pericoloso per una fiera elettorale. Meglio quindi rifiutare il palco a un membro del comitato spontaneo Uncommitted National Movement, affrontare il tema con un equilibrismo politico tutto nostrano, parlando di un Israele che ha diritto di difendersi ma denunciando la grossa crisi umanitaria che va risolta.

Parole vuote che non sono piaciute, ad esempio, al gruppo “Muslim Women for Harris” che ha dichiarato la propria dissoluzione. E che non piacciono ai musulmani in America che mai come in questa tornata si sono rivelati compatti nel fissare la linea rossa proprio sulla guerra israeliana su Gaza.

Non vanno sottovalutati: anche se sono appena l’1% della popolazione, sono concentrati nei cosiddetti Swing States, dove le elezioni si vincono per manciate di voti di differenza. Uno studio dell’Institute for Social Policy su tre di questi Stati ha ripetuto le domande del 2020 ed evidenzia come allora il 65% dei musulmani votò per Biden, mentre solo il 12% voterebbe ancora per lui.

La ricerca risale al maggio scorso e forse qualcosa è cambiato con Harris, ma la distanza è notevole e viene imputata proprio a Gaza, passato al primissimo posto come tema che può influenzare il voto degli intervistati.

Il ruolo dell’America nel mondo

Sulla questione palestinese Harris conferma supporto a Israele ma si distanzia dall’approccio fraterno di Biden ed evita di incontrare il primo ministro israeliano negli USA; sceglie poi come suo vice in pectore Tim Walz, il governatore del Minnesota molto aperto nelle dichiarazioni di simpatia alla Causa.

A sorpresa, dopo gli insulti poco velati, anche la campagna di Trump cerca di affascinare gli elettori musulmani, attraverso un nuovo genero, stavolta libanese (marito di Tiffany, per gli amanti del gossip), che gira per le comunità denunciando gli errori di Biden.

Più in generale, alla volontà di Trump di «lasciare agli altri gli affari degli altri» sul piano internazionale, Harris oppone un’idea di America ancora «leader del mondo». Parlando del suo rivale, sottolinea che «ammira i dittatori» e anche che «tratta i nostri amici da avversari e i nostri concorrenti da amiconi». Il senatore Mark Kelly aveva già stigmatizzaato i legami con Russia e Cina, riportando le parole virgolettate di Trump per cui «la Russia può fare quel c… che vuole in Ucraina».

Cambia la musica?

Un’ultima nota, per alleggerire, riguarda la scelta musicale dei due contendenti principali. La musica si intrufola tra un roboante «chi è pronto a difendere il Sogno Americano?» e un richiamo a «superare le divisioni, l’amarezza e il cinismo per iniziare un percorso tutto nuovo, non come membri di un partito o l’altro, ma come americani».

Tantissimi gli attori, intrattenitori e artisti presenti sul palco, molti i musicisti in esibizione o utilizzati come colonna sonora e, naturalmente, una playlist è già disponibile su Spotify, che non ci si lasci sfuggire un’occasione promozionale.

La scelta di Harris punta sul concetto di libertà, tanto caro alle donne americane la cui libera scelta riproduttiva viene messa in discussione da Trump: la sigla ufficiale è Freedom di Beyoncé e il tema viene ripreso da quasi tutte le canzoni durante la convention. Biden viene accolto da Higher love (un amore più puro – ndt) di Whitney Houston, tra gli sguardi commossi della folla.

Foto da Unsplash di Katerine Hanlon

Un’invasione del glorioso sud (musicale)

La campagna Harris entra addirittura in territorio nemico, con numerose proposte di musica country e southern rock, i generi più utilizzati da Trump e i preferiti della sua massa elettorale.

Di vero effetto come “ultimo persuasore occulto” – nella definizione del musicologo Nicholas Cook – l’artista folk Jason Isbell che canta Something more than free (ancor più di libero, ndr) davanti a un fienile con tanto di bandiera americana al vento.

Povero Trump: prima definito «personaggio poco serio», poi criticato per essersi «procurato l’immunità», infine tacciato, con tutti i suoi accoliti di essere «fuori di testa». Come non bastasse tutto questo, Harris gliele ha suonate per bene, almeno in campagna elettorale.

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