Uno sguardo ai film ieri dove ha avuto la parte del leone (si fa per dire) il biopic “Maria” di Pablo Larrain sulla divina Maria Callas

Larrain, noto regista cileno, è al suo terzo lavoro sulle biografie femminili: “Jackie” con una incredibile Natalie Portman e i giorni subito dopo l’assassinio del marito John Kennedy, e “Spencer” con Kristen Stewart sulla vita difficile nella “prigione” reale della principessa Diana. Questa terza pellicola narra gli ultimi giorni di Maria Callas dopo 4 anni di ritiro dalle scene. 

Il ritratto della Callas, interpretato da Angelina Jolie, è drammatico: la prima scena parte da un campo lungo nella sala della sua casa parigina, al 36 di Avenue George Mandel, il 16 settembre 1997, giorno della sua morte a soli 53 anni. 

La solitudine e la depressione, mescolate a pastiglie di Mandrax e a voli della mente, prendono il sopravvento nella narrazione: “vuoi Maria o la Callas?” chiede lei al suo pianista nel tentativo di riacquistare la voce di un tempo. 

Un ritratto a momenti aulico e anche confuso nella sua teatralità, tra le arie più note del repertorio lirico e un disperato bisogno di riconoscimento: Maria ha necessità della Callas, la mente della sua voce e anche di riprendersi il cuore, violentato da ragazza e abbandonato da grande da Aristotele Onassis, legato poi nella vita e nei due film di Larrain a Jackie Kennedy Onassis. 

Callas di Jolie, una bolla che galleggia in superficie

Eppure la ragazza di Atene fatica a penetrare nella parte più profonda di chi guarda, e forse anche nell’anima antica dell’ultima Callas. 

Vediamo il dramma di una artista ai massimi livelli che si trova sola e scopre che la sua vita, pur divina, non è più così, il teatro non le permette più il palco, la sofferenza ne ha preso il sopravvento. Ma che ne sappiamo del dramma interiore? Le domande vere di fronte alla fine imminente? La sensazione durante la proiezione è di restare in una bolla che galleggia in superficie, senza affrontare la profondità dell’anima, un’anima che, magari non credente, però affonda sue radici nella sua terra greca. 

Un’altra scena del film di Larraìn “Maria” sugli ultimi giorni di Maria Callas.

Un film che lavora con la grande sceneggiatura di Steven Knight ma che fatica a creare pathos. 

Il ruolo di Maria secondo Angelina Jolie è forte, l’identificazione non facile. Jolie è lei stessa un’icona, spogliarsi per interpretare la più grande soprano è impresa ardua. L’attrice a tratti comunica questo attraversamento, a tratti meno. 

Forse ci sarebbe voluta un’anima mediterranea, (come non pensare a figure come Anna Magnani o Irene Papas) per cogliere meglio la cultura e le radici. 

Buone le interpretazioni dei nostri due attori nei panni dei domestici che davvero hanno seguito la Callas dandole affetto e familiarità: Pierfrancesco Favino è Ferruccio Mezzadri e Alba Rohrwacher è Bruna Lupoli.

La paura della morte, una storia d’amore

C’è un filo che lega vari film per ora, un filo particolare, si parla spesso della morte, e dell’aldilà. In “Beetlejuice Beetlejuice” di Tim Burton in modo sconcertante, in “Nonostante” di Valerio Mastandrea in modo diretto. 

Valerio Mastandrea ha presentato alla Biennale Cinema il film “nonostante”. Foto La Biennale di Venezia.

La storia avviene in ospedale, ci si mette un po’ a capire chi è il protagonista e cosa fa. Poi si chiarisce e il gioco delle parti, tra l’attaccamento alla vita e il senso della morte e la dipartita che avviene con un forte alito di vento, svela il rapporto tra il reale e una specie di aldilà. 

Una grande prova per la seconda opera da regista di Mastandrea il soggetto di questa storia che è, soprattutto, una storia d’amore. 

E se la morte si ritrova in molte opere, quello che crea questione è l’assenza di una ricerca di Altro Alto, di un oltre che trascenda la dimensione del reale, come se le questioni si risolvessero solo in termini umani. Anche se ci sono accenni e visioni oltre il sensibile, pare che non ci siano più domande. 

E se “solo grazie alla morte la nostra vita ci serve ad esprimerci” come diceva Pier Paolo Pasolini, restano aperte e insolute le riflessioni alla Ingmar Bergman.

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