Nel 1961 Franco Basaglia (che a marzo di quest’anno avrebbe compiuto cento anni) diventò direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia. Uno dei primi giorni si trovava nel suo ambulatorio quando gli venne sottoposto il registro delle contenzioni in cui venivano riportati i nomi degli internati che la notte precedente erano stati legati al letto. “Si tratta solo di una firma, una cosa semplice! Si è sempre fatto così!” Basaglia si fermò, osservò quelle carte e rispose in veneziano: “E mi no firmo!”

Un nuovo inizio

Un rifiuto che determinò l’inizio di un cambio di prospettiva sulla malattia mentale. Una chiusura con il tradizionale modo di pensare la psichiatria che portò all’ apertura dei manicomi: con quel “No”, iniziò la dimissione dei pazienti internati, una volta restituita loro la dignità di esseri umani attraverso una modalità di cura che non prevedeva più elettroshock, mezzi di contenzione, abuso di psicofarmaci e condizioni di vita disumane. Ma li coinvolgeva in attività di laboratorio, assemblee, lavoro e soprattutto in una nuova relazione con medici, infermieri ed operatori.

Vennero chiusi quei luoghi de-animati e nacquero le reti territoriali dei Centri di Salute Mentale e, successivamente, quelli che oggi si chiamano i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) in cui i ricoveri sono brevi, per gestire la fase acuta della malattia e non più per tutta la vita. Slegò i pazienti, per liberarli dagli stereotipi e dalla prigione delle diagnosi che spesso concordavano (e ancora concordano, purtroppo, senza nessuna evidenza scientifica) con “pericolosità sociale”.

Ancora oggi, invece, c’è chi “firma.” C’è chi dice “SI!” ad una pratica che parla del vecchio modo di intendere la psichiatria e della triste realtà dello stato dell’arte della salute mentale e della sua percezione.

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La contenzione

Ma cos’è la contenzione? È una procedura che utilizza mezzi fisici (lacci, catene, camicie di forza) o chimici (farmaci) per limitare i movimenti del paziente.

Dal punto di vista normativo non vi è una legge specifica che attribuisca allo psichiatra il potere di contenere fisicamente il paziente né tantomeno che stabilisca come, quando e a che fine tale potere possa essere esercitato. Esistono delle linee guida ufficiali che insistono sullo “stato di necessità”, ovvero sull’evidenza di un pericolo attuale (danno alla vita), ma anche sul fatto che la contenzione deve essere autorizzata solo in extrema ratio, quando tutte le altre misure non abbiano funzionato.

Il tentativo è quello di limitarne l’utilizzo (fino alla sua eliminazione) per contenere l’inevitabile rottura della relazione di cura, ponendo il medico in una posizione di potere e controllo e il paziente in uno stato di terrore, paura, umiliazione e sfiducia. Compromettendo così il già difficile processo terapeutico.

La contenzione è un atto medico perché è “del medico” la decisione di metterla in atto; ma mentre quella meccanica non rappresenta un atto diagnostico e tantomeno terapeutico, per quella chimica il punto su cui riflettere non è l’uso dei farmaci (essendo a tutti gli effetti un presidio terapeutico) ma l’abuso che se ne fa.

A queste indicazioni se ne affiancano altre, in linea con il pensiero di Basaglia e con il rapporto dell’ OMS del giugno 2021 che promuove un approccio incentrato sulla persona e sui suoi diritti, ribadendo che “le pratiche coercitive sono pervasive e purtroppo ancora troppo utilizzate nei servizi psichiatrici, nonostante la mancanza assoluta di prove che offrano benefici di alcun genere, ma al contrario i significativi riscontri clinici su frequenti danni fisici, psicologici e a, volte, anche la morte”.

Sono proposte di intervento che si basano sui principi del “no restraint”, interventi per giungere ad azzerare i mezzi di contenzione meccanica nel rispetto della libertà e della dignità delle persone ricoverate, privilegiando tutti gli interventi relazionali. Nei casi più estremi di pericolo vengono adottate le pratiche contenitive relazionali ed empatiche come l’intervento “holding”, che consiste in un avvolgimento corporeo messo in atto dall’operatore sanitario così da comunicare con il paziente attraverso la fisicità, su un piano paritario, corpo a corpo.

Questo metodo viene già utilizzato in altri Paesi e in una ventina dei 329 SPDC italiani; ma affinché tale metodologia trovi sempre più spazio, deve esserci un cambiamento culturale tale da coinvolgere la formazione del personale e l’investimento di risorse in senso trasversale.

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Investire in salute mentale

La frequenza della contenzione meccanica è in rapporto diretto con quanto poco e male si investa in salute mentale, con il conseguente incremento di paure e allarmismi, alimentando l’idea che, forse, era meglio prima, quando i manicomi erano aperti. Nel 2015, il Consiglio Nazionale di bioetica suggeriva che la cultura e l’organizzazione dei servizi, più che la tipologia dell’utenza, giocano un ruolo decisivo nell’uso della contenzione. E ipotizzava che per evitare il ricorso alla contenzione fosse rilevante la buona organizzazione dei servizi territoriali aperti tutto il giorno spesso anche 24 ore conforti reti di integrazione e collegamento.

Purtroppo, secondo una stima della società Italiana di epidemiologia psichiatrica, ad oggi, con le risorse attuali, si riesce a far fonte al 50-55% del del bisogno di trattamento dei disturbi mentali. Entro il 2021 l’Italia avrebbe dovuto destinare il 5% della spesa sanitaria nazionale alla salute mentale; in realtà la percentuale si aggira attorno al 3% con le solite differenze regionali.

Questo significa meno forza in termini di personale (psicologi, psichiatri, OSS, assistenti sociali, infermieri ed educatori), strutture, posti letto ma anche formazione, informazione e quindi tra le altre cose più contenzione, con conseguenze drammatiche non solo per quanto riguarda i pazienti ma anche le famiglie lasciate sole e in difficoltà.

E in modo direttamente proporzionale è venuto meno di raggiungimento dell’obiettivo di eliminare la contenzione entro il 2023 (seconda conferenza nazionale “Per una salute mentale di comunità”, 2021). Perché se non ci sono medici e infermieri che tengono il paziente e lo calmano, si risolve la crisi con le gocce e le fasce.

L’esistenza ancora oggi della contenzione meccanica denuncia innanzitutto che un paziente viene spesso confuso con una diagnosi. Cercando di uscire dalla logica del giusto-sbagliato, riaffiora la responsabilità di dover comprendere che anche i malati mentali sono persone con diritti di libertà e dignità. Dobbiamo sempre più pensare la malattia mentale come una delle variabili possibili nel corso della vita di ciascuno di noi, direttamente o indirettamente. Con sfumature più o meno intense.

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