Diciotto storie. Diciotto persone.

Un testo che le racchiude tutte e le racconta una ad una, mettendo nero su bianco un pezzo di mondo che a volte guardiamo da troppo distante, come fosse una cosa diversa. Come fosse una cosa che non ci appartiene.

Un mondo che quelle diciotto persone vogliono cambiare, mettendo la propria professionalità al servizio dell’altro.

È questo di cui si fa portavoce Storie senza frontiere (Piemme (2024) di Gigliola Alvisi, con introduzione di Valeria Parrella e in collaborazione con Medici Senza Frontiere.

Proprio oggi, la Ong a seguito delle minacce sull’ospedale Al Aqsa, da cui dopo un’esplosione sono fuggiti 650 pazienti, ha aperto prematuramente un ospedale da campo sempre a Deir al Balah. Una struttura da 70 posti letto, espandibile a 110, con 5 posti di terapia intensiva, 2 sale operatorie e un pronto soccorso.

Gli ospedali da campo non sono una soluzione, ma l’ultima risorsa in risposta allo smantellamento del sistema sanitario a Gaza da parte di Israele, avverte MSF che chiede a tutte le parti in guerra di rispettare e proteggere le ultime strutture sanitarie rimaste nella Striscia”, si legge nel comunicato stampa diffuso da MSF. La reazione dell’organizzazione è stata rapida, ma rappresenta “l’ultima risorsa per fornire cure mediche urgenti una goccia nell’oceano” aggiunge Sohaib Safi, vicecoordinatore medico di MSF a Gaza. Nonostante le enormi difficoltà di approvvigionamento e di accesso, la ong sta allestendo un secondo ospedale da campo nella stessa area.

Un interno del nuovo sopedale da campo aperto da Medici senza Frontiere ad Al Aqsa. Foto MSF.

Anche per questo un libro che ci immerge nella “famiglia” di Medici Senza Frontiere – fatta di infermieri, logisti, psicologi, operatori sanitari, medici e molte altre figure professionali – è una occasione importante per conoscere l’organizzazione attraverso le diverse testimonianze e comprendere più da vicino cosa significhi operare in zone di guerra.

Ne parliamo con la sua autrice, Gigliola Alvisi: vicentina, ma residente a Padova, scrive romanzi per ragazzi, da anni promuove la lettura ad alta voce e organizza corsi di scrittura creativa nelle scuole. Tra i numerosi testi pubblicati e poi tradotti in diverse lingue, nel 2016 con Piccolissimo me (Piemme) vince il premio Il Battello a Vapore.

Alvisi, come si è avvicinata a Medici Senza Frontiere?

«Come tutti ne avevo sempre sentito parlare, sapevo chi fossero. Poi la casa editrice Piemme mi ha contattato per sapere se raccontare le storie degli operatori mi interessasse e ho detto subito di sì. All’inizio le interviste dovevano essere al massimo una decina. Volevo conoscere questi operatori senza avere preconcetti, pregiudizi, anche in modo positivo, lasciare che fossero loro a condurmi da qualche parte. Trovare il filo conduttore. È stata una grandissima esperienza raccontare e ascoltare le loro testimonianze. Saltavano fuori sempre nuove professionalità, pensiamo siano tutti medici o infermieri.

Umani, che vanno incontro all’altro anche con estrema professionalità. Oltre ad vere del buon cuore, sono anche grandissimi professionisti. Ascoltare i giovani logisti e sapere che avevano studiato per diventare quello che sono è stata una cosa bellissima.

È importante nel proprio lavoro, qualsiasi esso sia, trovare un senso. Che deve essere un senso anche civile. Che tu faccia il giornalista, il medico o l’insegnante, deve esserci una componente anche civile. Altrimenti che senso ha?».

Come la scrittura…

«Esatto. Ancora di più se si scrive per ragazzi, e diventa un’azione anche politica, nel senso migliore del termine».

Quando ci si rivolge ai ragazzi ci si rivolge al futuro. Lei ha scritto queste storie in un linguaggio a loro comprensibile. Cosa spera che arrivi a questa fascia di lettori?

«I ragazzi hanno tanta energia e tanta passione e certe volte non sanno dove reindirizzarla, e non sanno che ci sono queste realtà possibili. È importante che sappiano che c’è anche questa strada per cui spendersi».

Come si possono trasferire queste storie, che trattano temi importanti, impegnativi, in zone con una certa criticità? Come si trasferisce tutto questo in un linguaggio per ragazzi?

«Mi viene da dire lasciando parlare i fatti, astenendosi dal fare la predica, dal dire “vedi tu che sei comodo a casa e guarda i tuoi coetanei”. Astenersi dal giudizio.

La copertina di Storie senza frontiere di Gigliola Alvisi ed edito da Piemme, 2024.

Ma raccontando una cosa nella maniera più sobria possibile e lasciando che siano i ragazzi a farsi un’idea, una valutazione, un pensiero. Lasciandoli liberi di riflettere e trovare il modo con cui questo libro può rimbombare dentro di loro e incontrare la loro storia personale. Se a quello che raccontiamo aggiungiamo una valutazione moralistica questa cosa decade.

Ho cercato di raccontare le cose com’erano, come le hanno raccontate a me. Riportando anche la difficoltà, la fatica di questi operatori di tornare, di trovare il loro posto in un mondo che è rimasto cristallizzato. Anche rendersi conto che è necessario sospendere il giudizio e curare tutti senza chiedersi chi sono, cos’hanno fatto.

Non sono supereroi, sono persone, hanno i loro problemi, le loro difficoltà, e questo andava detto».

La semplicità vince sempre. L’elaborazione troppo forzata fa forse perdere il senso dell’obiettivo. Mi ha colpito molto in una frase, che si ripete spesso: il terreno chiama…

«Quello che loro mi hanno passato è il senso di utilità semplice che hanno di sé stessi. Senza grandi mezzi arrivi lì e fai quello che sai fare. E salvi una persona alla volta. Vai a letto tranquillo, perché quello che potevi fare l’hai fatto.

Noi viviamo in situazioni di pace, viviamo uno stress lavorativo dato dall’ambiente, dai ritmi, dall’ambizione, dalla carriera, che lì in effetti non ci sono. Si ritorna ai valori fondamentali. Questo penso che resetti molto».

E poi c’è il ritorno, che è un’altra esperienza ancora…

«A me personalmente il tema del ritorno a casa ha risuonato fortemente dentro per una questione personale. Ho un figlio che è ufficiale dell’esercito e andava in missione. Al ritorno sentivo la sua difficoltà di avere le parole o la voglia per raccontare.

C’è insomma questa distanza, la difficoltà di avere parole per avvicinare persone che non hanno vissuto la stessa esperienza. Ho trovato lo stesso ostacolo negli operatori di Medici senza Frontiere intervistati, sono persone che operano in situazioni difficili e vanno particolarmente seguite durante l’esperienza che fanno in diverse aree di intervento».

L’esterno della struttura sanitaria da campo aperta da Medici senza Frontiere a seguito dell’ordine di evacuazione dell’ospedale Al Aqsa da parte dell’esercito israeliano. Foto MSF.

Cosa le ha lasciato questo percorso di scrittura attraverso diciotto storie di operatori in prima linea?

«È stato proprio un viaggio, all’inizio molto cauto. Forse è esagerato dire che mi ha cambiato la vita, però è stata un’esperienza fondamentale. Ho conosciuto più in profondità l’organizzazione di Medici senza Frontiere, in cui operano persone sobrie, senza smancerie. È stato davvero un viaggio importante, sono grata alla casa editrice che mi ha coinvolto e mi ha dato carta bianca. Spero che viaggi anche il libro tra i ragazzi, nelle scuole, e possa aprire delle finestre in posti che normalmente non possiamo avvicinare.

Non è scontato vivere in pace, in libertà, in democrazia, in Paesi in cui le condizioni climatiche sono ancora accettabili. Questo mondo va difeso, non ci è stato dato come una carica onorifica, lo dobbiamo difendere. Non è retorico dire che ci sono ancora zone del mondo dove i bambini muoiono di fame, non lo diciamo quasi mai. Senza moralismi, noi siamo in quella parte del mondo che spreca, mentre un’altra parte non ha cibo».

Se volesse lasciare un messaggio ai ragazzi che leggono questo libro, cosa direbbe?

«Mettetevi in gioco. Spesso li proteggiamo così tanto che non gli permettiamo di sbagliare, di essere responsabili di quello che fanno. Direi loro di scoprire il proprio talento, che potrebbe essere quello di aiutare gli altri».

© RIPRODUZIONE RISERVATA