Una delle più prestigiose università al mondo, la Harvard University, ha definito Elio Petri “maestro moderno della satira ideologica” e un regista che è entrato, con un taglio netto, nella psicologia umana universale. Il regista romano, indipendente e scomodo, marxiano negli ideali e sensibile alle ingiustizie di una società italiana votata al consumismo, era tanto detestato dal Partito Comunista e dalla Democrazia Cristiana che non ha avuto, in Italia, gli onori che meritava. Tant’è che è più amato e conosciuto all’estero – Stati Uniti in testa – che nella sua terra d’origine.

Elio Petri (1929-1985) aveva un legame particolare con il Veneto e con Verona, tanto che a Mezzane di Sotto – sposato alla signora Paola Pegoraro, figlia di un produttore cinematografico – aveva trovato il suo “buen retiro”. Un posto tranquillo dove leggere, riflettere e rilassarsi: ma anche una base da cui muovere per andare al Festival del Cinema di Venezia, al lago di Garda e all’Opera lirica in Arena che tanto amava.

Per questo, il Comune di Mezzane di Sotto ha deciso – su iniziativa del sindaco, Giovanni Carrarini, e del vicesindaco, Lucio Patrizio Berton – di dedicare al grande regista Premio Oscar nel 1971, la restaurata sala comunale di Piazza IV Novembre. La sala, da 100 posti, ospiterà eventi di cinema, teatro, musica e incontri culturali. Potrà anche essere sede di mostre.

Vicino alla sala Elio Petri alla vigilia di Ferragosto è stata inaugurata anche la Torre dell’Orologio, restaurata, del XII secolo: un incontro tra passato e presente, in linea con la poetica del regista Petri, che ha raccontato le inquietudini, le nevrosi e i temi sociali validi nel passato come oggi. A Elio Petri, la biblioteca comunale “Andrea Porta” di Mezzane ha dedicato una sezione di libri sul cinema per diventare un punto di lettura, di visione e di riflessione sull’opera del regista.

La Sala “Elio Petri”, a Mezzane di Sotto (Verona) dedicata al regista Premio Oscar

I film di Elio Petri: da “Indagine” agli altri capolavori

Rivedere su grande schermo, piuttosto che nello streaming di casa, i film di Elio Petri, a 95 anni dalla nascita, vuol dire immergersi nelle nevrosi del nostro tempo. Il regista romano, figlio di un piccolo artigiano, appassionato di psicologia, ci porta con i suoi film nelle tensioni, interiori e sociali, che ancora attanagliano il nostro tempo. Petri ci mette in scena i più grandi attori italiani di tutti i tempi. E ci ricorda – con molte colonne sonore – la grandezza del genio musicale del suo compositore preferito, e grande amico: Ennio Morricone.

Con La classe operaia va in paradiso (protagonista Gian Maria Volontè) del 1971, film vincitore del Palma d’Oro a Cannes, tocchiamo con mano la “nevrosi del lavoro” con i suoi esiti, che ci bruciano ancora oggi sulla pelle della nostra società: il tema degli incidenti sul lavoro; il primato della tecnica sulla persona e sulla vita di relazione; lo scontro diretto tra chi cerca più diritti e chi pensa che tutto sia sacrificabile sull’altare dell’efficienza produttiva.

Il film raccolse le critiche di sindacalisti, studenti maoisti e dirigenti del Pci. Così commentò Petri le contestazioni a La classe operaia va in paradiso: “Con il mio film sono stati polemici tutti, sindacalisti, studenti di sinistra, intellettuali, dirigenti comunisti, maoisti. Ciascuno avrebbe voluto un’opera che sostenesse le proprie ragioni: invece questo è un film sulla classe operaia“. In questo modo, il regista marxista e critico del capitalismo – come lo presenta la Harvard University – riuscì a mettersi contro la Sinistra italiana. Poi toccherà anche alla Democrazia Cristiana, con il film Todo Modo.

“La classe operaia va in paradiso”, film Palma d’Oro a Cannes

La nevrosi del potere e quella del denaro

Del 1970 è il film, Premio Oscar l’anno successivo, sulla nevrosi del potere, ancora con Gian Maria Volontè protagonista: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. È la storia di un commissario di polizia che confessa l’omicidio dell’amante (interpretata da Florinda Bolkan), ma che tuttavia non viene creduto dai vertici della questura. In quest’opera d’arte, con una colonna sonora di Ennio Morricone che ritma l’arroganza e la vertigine del comando fine a se stesso, abbiamo il racconto di come il potere senza responsabilità produca frutti avvelenati per tutti. A cominciare da chi comanda.

“Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, Premio Oscar 1971

Di alcuni anni prima, il 1963, è il film con un altro grande attore, Alberto Sordi: Il maestro di Vigevano. Qui abbiamo un altro tipo di tensione nervosa: quella di un insegnante che ama il proprio mestiere e che vuole rifuggire dalle tentazioni del fare soldi a fini consumistici; mentre è costretto a subire le angherie del dirigente scolastico. Il film è uscito nelle sale mentre il boom economico italiano, iniziatosi negli Anni Cinquanta, stava per lasciare il posto alle inquietudini di una società che assieme al consumismo non riusciva ad alzare il livello culturale e sociale di un’Italia che da contadina si era trasformata, di fretta, in comunità industriale.

Del 1972 è il film La proprietà non è più un furto, con Ugo Tognazzi – nei panni di un ricco macellaio – e Flavio Bucci, ossessionato dai soldi. È il film sulla “nevrosi del denaro”, che porta un ragioniere di banca a diventare un ladro per derubare il ricco cliente, con amante al seguito, che è pure lui ladro, ma senza in apparenza infrangere la legge.

Dieci anni prima, nel 1962, Elio Petri aveva affidato al film I giorni contati – con un altro grande attore, Salvo Randone – il tema dell’alienazione prodotta dal lavoro e il connesso tema della caducità dell’esistenza, sospesa tra il sogno di essere liberi e la dura legge dell’economia per poter vivere. Petri, in questo suo secondo importante film, riesce a unire la tradizione linguistica del neorealismo con la sua passione per lo scavo psicologico, per il mettere in scena i piccoli e grandi drammi che tutti ci portiamo nell’anima.

Paola Petri, a destra, vedova del regista Elio Petri, con il sindaco di Mezzane, Giovanni Carrarini

L’alienazione, la ferocia tra umani e l’invadenza dei media

Elio Petri ha avuto un rapporto particolare non solo con Verona, ma anche con il Veneto. In provincia di Padova, nel 1968 aveva girato Un tranquillo posto di campagna, con Franco Nero e Vanessa Redgrave, vincitore dell’Orso d’argento al Festival di Berlino. In questo film, Petri mette in scena il tema, a lui caro, dell’alienazione del lavoro e del dissidio proprio dell’artista contemporaneo: è il dissidio tra la fedeltà alla propria arte e alla propria creatività, da un lato, e il dover cedere alle regole del mercato e del profitto, dall’altro, per poter vivere.

Nel film di fantascienza La decima vittima, del 1965, con Marcello Mastroianni, Ursula Andress ed Elsa Martinelli, Elio Petri affronta due temi che si intrecciano anche nel nostro tempo. Il primo è quello della ferocia dei rapporti umani: l’altra persona diventa la nostra preda, nella corsa alla vittoria in una competizione tra persone che qualcuno ha deciso; e a cui abbiamo aderito senza comprenderne i lati tragici. Il secondo tema è quello dell’invadenza dei mass media, con la spettacolarizzazione della nostra vita e la lotta tra umani che diventa uno show di massa grazie ai mezzi di comunicazione.

Premio Oscar, Palma d’Oro a Cannes, Orso d’argento a Berlino e una serie di Nastri d’Argento. Elio Petri era un regista scomodo. Era detestato dal Partito Comunista pur avendo ideali di sinistra e facendo una critica marxiana al capitalismo. Ed era in rotta di collisione con la Democrazia Cristiana (del 1976 è il film Todo Modo sul disfacimento della classe politica democristiana). Per questo, Petri è amato e apprezzato in tutto il mondo, mentre in Italia viene tenuto su una linea arretrata, rispetto ai Fellini, ai Pasolini e ai Bertolucci, registi del suo tempo.

“L’assassino”, film d’esordio di Elio Petri nel 1961, con Marcello Mastroianni

La critica a certa polizia e la presunzione d’innocenza

Eppure la grandezza di Petri la possiamo cogliere in due passaggi fondamentali della sua vita di autore per il cinema. Il primo è quello del lavoro di aiuto-regista del film, girato dal suo maestro Peppino De Santis, Roma ore 11, a cui ha lavorato anche Elio Petri. Il film si rifà a un fatto di cronaca nera del 1951, a Roma. In seguito ad un annuncio di lavoro pubblicato su un giornale, duecento ragazze si presentano a un indirizzo in via Savoia, a Roma, per ottenere un posto di lavoro di dattilografa nello studio di un ragioniere. Fra loro vi sono tutte le classi sociali, in un’Italia messa in ginocchio dalla disoccupazione.

Accalcatesi sulle rampe delle scale dell’immobile, ha inizio un furibondo litigio per la priorità in fila che trasforma l’attesa in tragedia: la ringhiera cede, distruggendo ad uno ad uno i gradini e facendo precipitare le donne, alcune delle quali rimangono seriamente ferite; una delle ragazze più giovani, Cornelia Riva, morirà in seguito alle lesioni riportate. Le ragazze ferite vengono portate in ospedale, dove realizzano un’amara scoperta: i medici pretendono il pagamento della retta giornaliera di 2300 lire (46 euro di oggi). Molte di loro sono costrette a ricoverarsi a casa perché impossibilitate a pagare.

Il secondo passaggio che lancia Elio Petri è nel film d’esordio – L’assassino, in bianco e nero, con Marcello Mastroianni. Nel 1961, il regista Petri ci porta subito a un tema che oggi più che mai anima i dibattiti sui social; e che suscita le passioni di chi segue i grandi casi di cronaca nera (la strage di Erba, il caso di Yara Gambirasio e Massimo Bossetti, lo stesso caso di Milena Sutter e Lorenzo Bozano): ovvero la presunzione di innocenza. Con L’assassino, Elio Petri anticipa anche la sua critica – che troviamo in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto – a certa polizia, quasi a sollecitare una polizia moderna, che sappia gestire le crisi e le situazioni di tensione, organizzata su basi professionali e al servizio della sola Costituzione. Nel mettere in scena un thriller avvincente e moderno, nel 1961 – come negli anni successivi – il regista romano Petri ci conduce, insomma, a misurarci giocoforza con riflessioni e temi che, irrisolti, ci portiamo ancora dietro. Come persone; e come società.

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