Medio Oriente: guerra senza fine
La crisi mediorientale non accenna a placarsi, ma ogni giorno si alza l'asticella del conflitto. La Striscia di Gaza è un cumulo di macerie e un cimitero a cielo aperto.
La crisi mediorientale non accenna a placarsi, ma ogni giorno si alza l'asticella del conflitto. La Striscia di Gaza è un cumulo di macerie e un cimitero a cielo aperto.
Non c’è un attimo di pausa negli eventi che interessano un Medio Oriente sempre più allargato e l’uccisione di Ismail Haniyeh, leader politico di Hamas, sposta il baricentro ancora più a Est, in quanto raggiunto da un attacco mentre si trovava a Teheran, in una residenza dei Guardiani della Rivoluzione. Un superamento della linea rossa tra Israele e Iran che ha peraltro un precedente nel recente attacco sulla sede diplomatica iraniana a Damasco (Siria) in cui fu ucciso un alto esponente dei Guardiani stessi.
Altri fronti sono stati aperti in Libano, con ripetuti attacchi sia da parte di Hezbollah, sia lato israeliano. L’ultimo ha portato all’uccisione del comandante libanese Fuad Shukur, alimentando ulteriormente la spirale perversa di reciproca vendetta. E poi lo Yemen, con il pesante bombardamento del porto di Hodeidah, da cui gli Houthi avrebbero lanciato il drone che poco tempo ha messo in imbarazzo il sistema di protezione antiaerea israeliano, pur con danni contenuti.
Nel frattempo, il premier israeliano Benjamin Netanyahu insiste a spostare la colpa sugli altri e a vantarsi degli attacchi in Paesi mediorientali come «dimostrazione che non esiste luogo che il lungo braccio dello Stato di Israele non possa raggiungere». Niente di sorprendente, venendo da una persona la cui unica risposta a qualsiasi problema, che siano proteste dei suoi stessi cittadini o razzi da Gaza, è sempre stata solo la violenza.
Il portavoce di IDF, l’esercito israeliano, si preoccupa di spostare la “colpa” sui nemici, dichiarando che «i continui, brutali attacchi di Hezbollah stanno trascinando l’intero Medio Oriente in una escalation». Aggiunge poi che «pur preferendo risolvere le ostilità senza una guerra più ampia, le IDF sono pronte per qualsiasi scenario». Al di là dei paraocchi obbligatori indossati con disinvoltura dall’esercito, agli osservatori pare chiaro che la “guerra che si preferirebbe evitare” in effetti esiste già e provoca morte e distruzione in diversi Paesi.
Nel suo discorso al Congresso USA, Netanyahu ha ringraziato gli alleati per il sostegno, almeno quelli presenti, in una sala che molti politici hanno disertato (o che hanno lasciato prima per protesta). Parlando della folla di detrattori all’esterno, li ha definiti deviati nelle loro convinzioni da una deriva anti-semita che ha deciso di «stare con assassini e violentatori». Per un breve istante si è pensato parlasse del suo esercito, viste le accuse avanzate in patria, ma no, è tornato subito sulla linea delle «accuse false e pretestuose», riferito ai media ma anche alla Corte penale internazionale.
Tra i temi prevedibili, spicca da un lato l’assenza di riferimento alcuno a un possibile accordo per la liberazione degli ostaggi, come invece atteso e anticipato dai media israeliani e dai parenti dei rapiti. Dall’altro Bibi si “allarga” a nuovi dettagli sulla sua visione della Striscia, che emergerà «il giorno dopo la sconfitta di Hamas». Promette di mantenere la sicurezza nell’area per «prevenire il ritorno dei terroristi e creare una nuova generazione di Palestinesi a cui insegnare la pace invece dell’odio». Viene da chiedersi se lo stesso precetto verrà insegnato anche in Cisgiordania e in Israele.
Quando parla di ricostruzione, poi, di strade, infrastrutture, sanità, vengono in mente soltanto di occhi luccicanti di Jared Kushner mentre commentava, solo pochi mesi fa, nel mezzo di un genocidio, «il valore economico del litorale di Gaza». Candido e sicuro dei diritti israeliani su quei 50 km di devastazione, Kushner non è solo. Fin dal giorno dopo l’attacco palestinese, si è andato delineando un gruppo di multimiliardari, sviluppatori immobiliari e fondi di investimento, oltre alle solite multinazionali sempre pronte a cogliere le occasioni offerte da una crisi. Non importa a spese di quale umanità.
Da sempre polo mondiale nella tecnologia, Israele ha visto negli ultimi anni aumentare in modo esponenziale gli investimenti dei colossi hi-tech come IBM, Google, Amazon, Nvidia, Meta e molti altri, i cui sistemi di riconoscimento facciale – ad esempio Project Nimbus – sono alla base dell’intero sistema di permessi per i Palestinesi. Israele raccoglie milioni di dati biometrici della popolazione araba e ne controlla gli spostamenti e le attività online.
Recentemente questo metodo, che per molti occidentali appare già come un abuso di privacy, è stato affinato, come evidenziato da due agenzie giornalistiche investigative con sede in Israele, “+972 Magazine” e “Local Call”. La loro ricerca ha riguardato migliaia di documenti e dichiarazioni ufficiali, oltre a testimonianze sul luogo di palestinesi e operatori internazionali. Particolarmente significativo è il contributo dato da sette membri, attuali e passati, dei servizi di intelligence e dell’aeronautica israeliana.
Si è capito subito che la reazione delle IDF al 7 ottobre aveva qualcosa di diverso da ogni altro intervento armato nella Striscia. Il numero dei raid aerei e le tonnellate di bombe sganciate non hanno paragoni, al punto da far scattare negli analisti l’analogia con le bombe atomiche sul Giappone.
Sono aumentati soprattutto quelli che vengono definiti da IDF come “matarot otzem”, in inglese power targets, ovvero obiettivi non direttamente militari, che dovrebbero riguardare edifici civili in cui si ritiene si nascondano o vivano obiettivi militari di alto rango. La giustificazione ufficiale e pubblica sarebbe che «la distruzione di tali obiettivi crea uno shock psicologico nella società civile, portando a pressioni su Hamas».
L’investigazione ha portato alla luce come l’esercito da ottobre scorso abbia rilassato i criteri di eleggibilità di un obiettivo, portando in numerose occasioni alla distruzione di residenze civili, alla morte immotivata di intere famiglie. Sono stati documentati casi di ogni tipo e importanza, anche uno in cui è bastato che il cellulare di un operativo di Hamas agganciasse la cellula di un quartiere, per ottenere un bombardamento a tappeto dell’intera area.
I nuovi sistemi di cui si è dotato l’esercito permettono di elaborare con incredibile velocità una massa enorme di dati, alla ricerca di parole chiave sensibili, di seguire ogni movimento e tracciare posizioni di tutti. Così è stato individuato Haniyeh e in questo modo è stato ucciso Shukur. Se queste per alcuni sono morti giustificabili, ci sono migliaia di altre vittime che si trovavano solo al posto sbagliato nel momento sbagliato.
Nei file conservati da IDF sono riportati per ogni power target anche il corrispondente numero di danni collaterali, termine elegante per indicare donne anziani e bambini che si trovano in un edificio. Tale numero è noto e l’intelligence decide in base a una graduatoria di ampiezza se autorizzare l’attacco. Chi autorizza sa bene quanti saranno gli innocenti travolti. Quando muore una bimba in un edificio, dietro c’è qualcuno che ne ha intenzionalmente e con cognizione di causa previsto e autorizzato la morte. E magari dorme benissimo.
Si chiama per macabra ironia “Habsora”, ovvero Vangelo, il sistema di intelligenza artificiale che incrocia tutti i dati dei Palestinesi, rintraccia presunti terroristi, calcola il numero di vittime collaterali e sottopone gli esiti a chi deve autorizzare. Serve ancora un intervento umano, ma le fonti intervistate arrivano a definire la Targets Administrative Division come una «fabbrica della morte di massa» e riportano di un sistema che premia la quantità di attacchi autorizzati sulla qualità dei risultati.
Lo stesso direttore del centro ebbe a dire che «la macchina può produrre 100 nuovi obiettivi al giorno, mentre in passato erano solo 50 in un anno». Sono diventati così tanti, sostengono le fonti sentite dai giornalisti, che l’aeronautica non riesce a tenere il passo. I diretti interessati raccontano che il Vangelo suggerisce obiettivi in tempo reale e a loro resta pochissimo tempo per esaminare i dettagli. Un ex militare dice che a volte «un solo ufficio in qualche modo collegabile al terrorismo giustifica la distruzione di un intero grattacielo».
IDF ha inoltre rinunciato al “roof knocking”, ovvero una piccola scarica di avvertimento per evacuare l’edificio, e a volantinare l’area di futuri obiettivi. Il generale dell’aeronautica Omer Tishler ha dichiarato che questi metodi «possono andar bene per le battaglie, ma questa è una guerra», fatto che evidentemente legittima un numero assurdo di vittime casuali, con buona pace dell’AI, programmata per considerare nel suo calcolo la preventiva evacuazione dei civili.
Alla purtroppo nota frase di tempo fa del Ministro della Difesa Yoav Gallant fa ora eco, con toni appena minori, Netanyahu durante il discorso al Congresso. Bibi ricorda che l’intervento su Gaza non è uno scontro tra civiltà, bensì «una lotta tra un popolo civile e uno incivile», anche se diventa sempre più difficile vedere un barlume di umanità nell’intero scenario, in alcuno dei contendenti. Altri più bravi saranno in grado di decidere se sia migliore chi si fa scudo con i civili e si nasconde negli ospedali oppure chi non si fa scrupolo a uccidere tutto quel che si muove pur di dimostrare la sua potenza.
Il programma Gaza 2035 rende bene l’idea di cosa Netanyahu intenda per civiltà: sorveglianza e controllo delle masse, armi tecnologiche e AI al servizio dell’esercito, oltre alla cancellazione dei Palestinesi per far posto a nuova ricchezza nelle mani dei circoli fintech. Sembra che, tutto sommato, non abbiamo imparato nulla dalla promessa del Dopoguerra. Altro che mai più. Gaza è un cimitero, ormai: per i Palestinesi, per il diritto internazionale e per il nostro futuro di esseri umani.
Dicono che la questione mediorientale sia complessa, ed è vero. Dicono che non ci sia una soluzione, e forse hanno ragione. Ma la risposta non sta nell’ampliamento del conflitto, nelle rappresaglie a largo raggio. Non si può ragionare sotto il fragore delle bombe. La soluzione non c’è ma, se ci fosse, si potrebbe cercare nel silenzio delle armi.
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