Parigi 1924, le Olimpiadi un secolo fa
La capitale francese è pronta alla sua terza Olimpiade. L'ultima, un secolo fa, ha regalato storie e protagonisti indimenticabili.
La capitale francese è pronta alla sua terza Olimpiade. L'ultima, un secolo fa, ha regalato storie e protagonisti indimenticabili.
Nemmeno il tempo di lasciarsi alle spalle la sbornia calcistica degli Europei, che già dobbiamo immergerci nel clima di attesa e curiosità che precede ogni appuntamento olimpico. Venerdì 26 luglio prendono il via i Giochi della XXXIII Olimpiade. Parigi è pronta ad ospitarli per la terza volta e, perciò, quale modo migliore per prepararsi che fare un salto indietro all’ultima volta che le medaglie furono assegnate sotto la Tour Eiffel? Esattamente un secolo fa.
Parigi 1924 non è stata un’Olimpiade come tutte le altre. Sì, lo so che questo assunto vale per qualsiasi avvenimento a cinque cerchi. Ma ci sono buone ragioni per affermare che gli ultimi giochi parigini sono stati sia una sorta di spartiacque che un crogiuolo di storie, forse, irripetibili. Per i giorni nostri di sicuro. Vale la pena esaminarne alcune.
Dunque, dicevo di uno spartiacque. Per il CIO – Comitato Olimpico Internazionale – senza dubbio. I Giochi del 1924 sono stati gli ultimi ad essere organizzati sotto la presidenza di Pierre de Coubertin. L’uomo che, dando forma solida ad alcuni principi di matrice anglosassone, ha ideato le Olimpiadi moderne, è al suo ultimo giro di giostra. La scelta di Parigi, sua città natale, come sede, è stata un gentile omaggio dei membri del comitato e, allo stesso tempo, un modo per fare orecchie da mercante alle richieste italiane.
Tutta la riconoscenza possibile a de Coubertin, ma già allora il passaggio di testimone è visto da molti come una liberazione. Ad esempio dai fautori dello sport femminile. I principi di sportività del Barone, tramandati nei decenni, cozzano infatti con una mai celata misoginia che gli ha sempre impedito di dare il via libera ufficiale alla partecipazione delle donne ai Giochi. Le donne gareggiavano già da tempo, ma sempre senza l’imprimatur dell’ufficialità. Che difatti arriverà quattro anni dopo, ad Amsterdam 1928.
Chiudiamo il capitolo con una necessaria opera di debunking. “L’importante non è vincere, ma partecipare” è una frase che, in realtà, il Barone non ha mai pronunciato. La citazione è in realtà il risultato di una catena di rimandi e travisamenti di un concetto più ampio, legato all’atteggiamento vincente, che parrebbe ripreso dal pensiero di un vescovo anglicano della Pennsylvania.
La capitale francese nel cuore degli anni Venti è il centro del mondo. Nella Ville Lumiere l’Art Nouveau lascia il posto al Déco e nascono movimenti di rottura come il Dada e il Surrealismo. Un fermento che Hemingway immortala in uno dei suoi capolavori più riusciti. Parigi è consapevole del suo ruolo e, proprio per questo, sente l’obbligo di far dimenticare la precaria figura fatta nel 1900.
Obiettivo raggiunto visto che, oltre allo spettacolo sportivo, fioriscono un’attenzione e una curiosità che cominciano a far percepire a tutti l’importanza socio-culturale e l’attrattività di massa dello sport. Le prime “Olimpiadi glamour” diranno, con teste coronate e volti del cinema e dalla cultura felici di farsi fotografare sugli spalti. Il mondo che cambia. Se ne accorgono subito dalle parti di Atlanta, nella sede della Coca Cola, che quattro anni dopo diventerà il primo sponsor olimpico della storia.
Cambia anche la percezione dell’atleta. La diciottenne Hellen Wills è la regina di quest’Olimpiade e, sostanzialmente, lo sarà anche del tennis mondiale nella decade successiva. Durante i Giochi il suo sarà il primo caso in cui viene pubblicizzato un atleta piuttosto che la disciplina in cui è impegnato. Sì, l’uso del maschile è voluto. Wills è la prima atleta in assoluto, uomini compresi. Gli otto Wimbledon, gli altri Slam, le mostre di pittura e i libri degli anni successivi stanno lì a dimostrare che, con lei, parlare solo di tennis sarebbe riduttivo.
Se Hellen Wills è la regina, il sovrano incontrastato di quest’Olimpiade è un finlandese silenzioso. Senza mezzi termini, il più grande mezzofondista di sempre. Paavo Nurmi è l’uomo che ha votato il suo corpo alla fatica e, così facendo, ha piegato il tempo. Da ragazzino vede il padre morire e, per aiutare la madre a portare avanti la famiglia, passa l’adolescenza a trasportare traversine di ferro su e giù per i cantieri di Turku.
Nurmi gareggia sempre col cronometro in mano e ai Giochi si presenta da grande favorito, portandosi in dote i tre ori conquistati ad Anversa quattro anni prima. A Parigi, però, compie un’impresa che è entrata di diritto nella mitologia dello sport. Stravince i 1.500 metri, con l’inglese Stallard (bronzo), che tagliato il traguardo stramazza al suolo semi incosciente a causa del ritmo impresso da Paavo. La finale dei 5mila è in programma appena mezz’ora dopo, spostata poi a 55 minuti a seguito delle proteste della dirigenza finlandese. Nurmi scende comunque in pista e regala un duello affascinante col connazionale Ville Ritola, staccato poi a 40 metri dal traguardo.
Due ori conquistati a distanza di un’ora l’uno dall’altro, e in due gare di fatica vera, non si vedranno mai più. Le medaglie d’oro di Paavo Nurmi a Parigi alla fine saranno cinque. Aggiunge infatti i 3mila a squadre, campestre individuale e a squadre. In tre edizioni delle Olimpiadi il totale dice nove ori e tre argenti, vincendo tutto quello che va dai 1.500 ai 10mila e stabilendo in carriera 29 record del mondo.
Nel 1952, ai Giochi di Helsinki, anche un popolo parco di emozioni come quello finlandese si commuove riconoscendo il passo dell’uomo che sta portando la fiaccola olimpica. Piove, e le gocce si mischiano alle lacrime dei presenti allo stadio. Una scena che sarebbe certamente piaciuta a De André, oltre che starci benissimo in un qualche biopic hollywoodiano.
Il 28 dicembre 1895 a Parigi, nel Salon indien du Grand Café sul Boulevard des Capucines, numero 14, al prezzo di un franco a persona, il cinema si presentava al mondo grazie ai fratelli Auguste e Louis Lumière. Proprio alle Olimpiadi parigine del ‘24, la “settima arte” deve molto. Il nuoto, ad esempio, regala una delle prime superstar del grande schermo. Johnny Weissmüller incassa tre ori, ma il grande salto arriva otto anni dopo con Tarzan l’uomo scimmia. Saranno in totale 12 le pellicole girate dal primo Tarzan della storia.
I Giochi del 1924 sono anche il proscenio sul quale si dipana la vicenda raccontata in Momenti di gloria. Sì, esatto, il film della corsa sulla spiaggia e della saccheggiatissima colonna sonora di Vangelis. Protagonisti della pellicola sono i velocisti Eric Liddell e Harold Abrahams, la cui vicenda viene un pochino romanzata, ma neppure troppo se pensiamo agli standard cinematografici odierni. Abrahams, ad esempio, non è al suo esordio olimpico, c’era anche quattro anni prima ed era andato maluccio.
Vera, invece, la vicenda di Liddell. Fervente cattolico, figlio di missionari in Cina, che non gareggia nelle qualifiche dei 100 metri e nelle staffette, che si tengono di domenica. Si concentrerà su 200 e 400 metri, come raccontato nel film, portando a casa un bronzo e un oro. Qualche mese dopo le Olimpiadi torna in Cina e diventa a sua volta missionario. Morirà in un campo di prigionia giapponese nel 1945.
C’è uno sport che, a Parigi, prende definitivamente consapevolezza di sé e comprende che il futuro lo vedrà assoluto protagonista. Si tratta, ovviamente, del calcio che, alla sua sesta apparizione olimpica, scopre il fascino del Sud America. Il primo, grande, Uruguay arriva in Francia da illustre sconosciuto e, in quindici giorni, regola a suon di reti ogni avversario affrontato sul campo e lascia dietro di sé anche una brina di mito che si disperde in centinaia di storie e aneddoti vari.
Nella Nazionale capitanata da Nasazzi, che di mestiere intaglia marmo, e rifinita in attacco da Petrone e Scarone, a suscitare più scalpore di tutti è Josè Leandro Andrade. Il primo giocatore di colore a scomodare giornalisti e a lasciare a bocca aperta mezzo continente europeo. Una parabola, la sua, che fonde stregoneria, pallone, musica e notti brave. Si fermerà a Parigi qualche mese in più dei compagni di squadra. Giusto il tempo, pare, di concedersi un’avventura con Josephine Baker.
Secondo Osvaldo Soriano la vittoria parigina diede forza e consapevolezza non solo al movimento calcistico dell’Uruguay, ma all’intero Paese. La Celeste sarà la formazione del decennio, vincerà anche le Olimpiadi successive e da anni porta avanti una querelle con la FIFA sul fatto che, proprio i tornei olimpici del ‘24 e del ‘28, fossero in realtà i primi Mondiali della storia. Ecco perché ancora oggi sulla divisa dell’Uruguay campeggiano quattro stelle iridate.
La spedizione azzurra non va male. Finisce quinta nel medagliere con otto ori, tre argenti e cinque bronzi. Brilliamo nel sollevamento pesi, nella ginnastica e in due discipline sulle quali verranno edificate grandi tradizioni tricolori: scherma e marcia.
L’Italia del calcio viene fatta fuori ai quarti dalla Svizzera, ma di quest’avventura olimpica, grazie a Paolo Villaggio, rimane ad imperitura memoria la vicenda del portiere lussemburghese Etienne Bausch. Nel suo Fantozzi (il libro, non il film) Villaggio racconta di quel portiere che, parando un tiro estremamente potente, si mozzava la lingua con un morso. Fasciato alla buona, rientra in campo solo per fuggirvi pochi minuti più tardi quando si ritrova di fronte l’autore del tiro precedente. Sembra una classica scena scritta appositamente per le tragicommedie del ragioniere più famoso d’Italia, invece è realtà. Accade negli ottavi di finale, protagonisti lo sfortunato Bausch e l’attaccante del Vado, Virgilio Levratto.
Quest’estate, a Parigi, arriviamo con tante aspettative di medaglia, sia nelle discipline storiche che in altre dove normalmente avremmo faticato. Ad esempio il tennis.
E proprio qui potrebbe stare il trait d’union tra due Olimpiadi separate da un secolo di sport. Uberto de Morpurgo, nobile triestino che aveva preso parte alla Grande Guerra con la divisa dell’aviazione austriaca, nel 1924 conquista la medaglia di bronzo ed è, ad oggi, l’unico tennista ad aver vinto una medaglia olimpica per l’Italia.
A Sinner e soci il compito riscrivere le pagine della storia.