Anche di fronte a evidenti percosse, le donne vittime di violenza tra le quattro mura faticano a denunciare o ritrattano quanto accaduto dissimulando e ricorrendo al famigerato “sono solo caduta” o “ho sbattuto contro la porta”.

Un simile comportamento rende difficili gli interventi di supporto da parte degli enti di assistenza e tutela che in diverse occasioni si vedono respinti o attaccati dalle stesse vittime che intendono proteggere.

Come possiamo spiegarci un simile comportamento così apparentemente contrario al più basilare istinto di sopravvivenza? Non esiste una risposta univoca, ma possiamo individuare alcuni fattori che ci aiutano a fare luce su un fenomeno che appare così inspiegabile e contraddittorio.

Identificazione con l’aggressore

In taluni gravi casi di violenza domestica, la vittima, dipendendo totalmente da un’altra persona, può sentirsi sopraffatta da un senso ineludibile di impotenza che la scuote così profondamente da paralizzarla.

Di fronte a un costante pericolo, l’unico modo di sopravvivere diventa anticipare le intenzioni perverse e violente dell’aggressore, accettandole e, all’estremo, condividendole.

In una tale situazione, la vittima abbandona la propria individualità, consegnandosi all’aggressore, identificandosi e iniziando a pensare come lui/lei in modo tale da prevederne gli agiti e le reazioni. Di fronte a questa ineludibile angoscia dettata dalla paura, la vittima non riesce più a difendersi, sottomettendosi invece alla volontà dell’aguzzino.

L’affetto non è più dettato da amore, ma diviene una parodia malata dettata della paura. Questa identificazione con l’aggressore (a volte confusa con la famosa Sindrome di Stoccolma) raggiunge il culmine quando la vittima inizia a pensare di meritare le violenze subite. Introietta dentro di sé le accuse e le svalutazioni che le piovono addosso impietosamente. Si giunge, infine, al punto di ritenere che gli abusi subiti siano giustificati perché subentra l’idea di essere veramente sbagliati o in torto. Le violenze vengono distorte fino a tramutarsi in “modalità educative inevitabili” e la vittima, identificatasi con l’aggressore, si sente in colpa anche solo per il fatto di difendersi.  

La colpevolizzazione vissuta dalla vittima è oltretutto ancor più difficile da scardinare perché rafforzata dall’eco di un pensiero sociale che incentiva la stigmatizzazione di chi subisce a discapito della condanna degli aguzzini.

Sentiamo spesso tra i commentatori dei casi di maltrattamento tra le mura di casa la fatidica frase: “Lui sarà anche stato violento, però lei avrebbe potuto lasciarlo prima! Se l’è proprio andata a cercare!”. Sono proprio pensieri simili che alimentano in modo deprecabile la vergogna che molte persone provano quando denunciano le violenze subite. Se, inoltre, gli abusi sono perpetrati da una donna ai danni di un uomo, quasi inevitabilmente assistiamo a reazioni di derisione o disprezzo.

Paura delle ritorsioni

Un altro dei motivi principali per cui le vittime di violenza domestica provano a ritirare le denunce è la paura di ritorsioni da parte del partner violento. Gli aggressori possono minacciare di infliggere maggiore violenza non solo alla vittima, ma anche ai figli o ad altri familiari.

La paura di perdere la propria vita o quella dei propri cari può essere paralizzante e portare la vittima a pensare che ritirare la denuncia sia l’unica via per proteggere se stessa e i propri cari. 

In alcune situazioni, le minacce e i soprusi diventano talmente frequenti nella coppia che assurgono a prassi o rappresentano uno status quo accettato dalle parti come fossero qualcosa di normale. Si giunge, qui, a un’altra forma di perversione della relazione affettiva.

Gli attacchi, il controllo, le svalutazioni e gli abusi divengono il linguaggio predominante nella coppia che, assorbita in una tale dinamica, non riesce più a distinguere l’amore dalla sofferenza.

Dipendenza materiale

Un ulteriore modo nel quale si manifesta la violenza domestica è il progressivo isolamento della vittima dalle fonti esterne di supporto, quali amici o familiari, in modo da renderla dipendente dall’aguzzino. Ciò passa anche, in molti casi, da una sudditanza economica e materiale imposta dal partner che detiene dunque le redini della gestione della casa (si rammenta per altro l’etimo greco della parola “economia” che indicava originariamente proprio “l’amministrazione della casa”!).

Un aggressore, di fronte a una denuncia, potrebbe minacciare di lasciare la vittima in condizioni precarie o di non provvedere più al sostentamento dei figli. 

Infatti, anche la gestione delle finanze familiari può sottendere dinamiche di potere e controllo. In questo senso, per esempio, è importante ricordare che il mancato versamento degli alimenti da parte di uno dei coniugi costituisce un reato penale. Tali inadempienze si possono infatti configurare come una vera e propria forma di violenza psicologica e materiale perpetrata mediante il denaro ai danni, in primis, dei figli, ma anche dell’ex coniuge.

©RIPRODUZIONE RISERVATA