Prima delle elezioni nel Regno Unito, con gli amici britannici residenti in Italia abbiamo preparato le bottiglie di prosecco per celebrare la vittoria data per certa dei laburisti e il nuovo premier Keir Starmer. Era dal referendum disastroso sulla Brexit del 2016 che aspettavamo un momento come questo, qualcuno addirittura dal 2010, perché a ben vedere tutti e 14 anni di governo del partito conservatore sono stati un vero disastro.

Per molti di noi è stato anche un voto dal grande significato simbolico, perché non si trattava solo della possibilità di mandare a casa i conservatori, ma erano le prime elezioni dopo la riconquista del diritto di voto che avevamo perso avendo trascorso più di 15 anni fuori dai confini nazionali.

La difficoltà di esercitare il diritto di voto

Prima del 2016 non sembrava così importante votare alle elezioni di un Paese per il quale non contribuivamo più molto, nonostante i legami di famiglia e i sentimenti di appartenenza nazionale. Invece con la Brexit abbiamo perso i diritti fondamentali alla base della residenza nell’Ue che derivavano dalla libertà di circolazione in Europa, e ci siamo resi conto dell’enorme importanza di un referendum che cambiava completamente la base giuridica del nostro essere residenti nell’Unione.

Per questo abbiamo insistito presso il governo tramite l’organizzazione British in Europe per riavere il diritto di voto. Forse qualcuno nel governo si è sentito in colpa sentendo i racconti delle difficoltà della comunità britannica in Ue (come testimoniano i due volumi In limbo: Brexit testimonies from EU citizens in the UK e In Limbo Too: Brexit testimonies from UK citizens in the EU).

Forse, con la tipica arroganza dei conservatori, pensavano che chi vive all’estero (come i colonialisti di una volta) avrebbe votato conservatori: fatto sta che ci hanno ridato il diritto di voto, pur con un sistema complicatissimo per ottenere l’iscrizione nelle liste elettorali. Per fortuna alcune amicizie sono resistite nel tempo e in tanti siamo riusciti a ritrovare un’amica o amico di vecchia data e di buon livello sociale (serve anche questo) che ha accettato di attestare la nostra residenza in Inghilterra 20, 30 ma anche 50 anni fa.

Naturalmente i registri negli uffici pubblici non c’erano più e l’anagrafe è un concetto sconosciuto nel Regno Unito. È vero che ci sono le liste elettorali, ma chi avrebbe mai pensato di doverle ricostituire a distanza di più di 15 anni?

Anne Parry (in foto) ha potuto votare per posta alle ultime elezioni generali del Regno Unito.

Risposta compatta contro Reform UK

Alla fine abbiamo votato, chi con delega, chi per posta, ma tutti abbiamo optato convintamente contro il governo conservatore, seguendo le regole del voto tattico, scegliendo chi aveva maggiori possibilità di sconfiggere i conservatori con i loro leader che tanti danni hanno inflitto al Paese negli ultimi 14 anni, con la speranza che i 609 candidati di Reform UK di Farage perdessero la caparra di 500 sterline che hanno dovuto versare per potersi candidare.

Infatti Reform UK, che era una società e non un partito politico, di proprietà di Nigel Farage e Richard Tice, fautori della Brexit e leader della destra radicale inglese, era riuscito a trovare un candidato per quasi ogni collegio elettorale, anche se poi di seguito qualcuno ha messo in dubbio l’esistenza di alcuni candidati sprovvisti di informazioni di base come foto o informazioni biografiche. Il candidato di Reform UK  nel collegio di Bassetlaw dove sono cresciuta (ma non dove ho votato) era tal Frank Ward, 86 anni, entrato nella formazione dopo decenni da consigliere laburista, oltre che essere padre della sindaca laburista dell’East Midlands.

Una vittoria da brivido

Così alle 10 di sera del 4 luglio ci siamo accomodati davanti alla TV con il prosecco pronto e al momento degli exit poll abbiamo stappato le bottiglie e brindato al successo del Labour, anche se Starmer e i suoi avevano espresso la loro intenzione di non cercare di rientrare nell’Ue.

Al momento era sufficiente mandare a casa i conservatori con le loro politiche anti Unione, anti regole europee (sebbene i tappi siano tenacemente attaccati alle bottiglie anche in Inghilterra, evidentemente i motivi commerciali sono più forti di quelli ideologici) e anti migranti (la decisione tanto attesa di mettere fine all’idea di mandare i migranti in Ruanda è stata una delle prime dichiarazioni del nuovo governo).

Poi sono arrivati i risultati dei singoli collegi, si vedeva il rosso del Labour balzare in prima posizione, il blu dei Conservatori scivolare in giù e salire il turchese di Reform UK in seconda posizione perché comunque ha conquistato tanti voti, non in ogni collegio ma abbastanza per fare paura. Per fortuna Frank Ward di Bassetlaw è rimasto fermo al terzo posto, dopo Labour e i conservatori.

Manifestanti che il 22 giugno scorso hanno marciato a Londra per l’iniziativa Restore nature now, per chiedere alla politica di non emarginare la questione climatica. Foto di Duncan Cumming, Flickr.

Risultati schiaccianti

L’entusiasmo degli exit poll man mano è svanito all’idea di tante persone che ancora votano il non partito della Brexit: forse non hanno capito che Reform UK è solo il nuovo nome del Brexit Party, o forse non hanno collegato il declino del Paese con la sua causa principale. 

Così siamo andati a dormire, certi della vittoria di Labour, ma sconvolti dai toni minacciosi di Nigel Farage: ‘We are coming for you, Keir Starmer’ (Ti veniamo a prendere, Keir Starmer).

Alla fine il Labour ha vinto in modo massiccio con 411 seggi su 650, i conservatori sono riusciti a tenerne solo 121, perdendo 244 seggi, mentre i liberaldemocratici sono arrivati all’ottimo risultato di 72 seggi dagli 11 che avevano prima del voto e Reform UK ha conquistato soli 5 seggi, sempre troppi ma non come si temeva.

Nel collegio di Oxford East dove ho votato, ha vinto alla grande il Labour, un risultato mai stato in dubbio. Per sicurezza alla fine ho votato però anch’io per il Labour nonostante la presenza di un candidato del nuovo partito Rejoin EU, Andrew Smith, che poi ha preso 425 voti, un risultato dignitoso, forse un bell’inizio per chi vorrebbe vedere il Regno Unito di nuovo membro dell’Ue in futuro. 

Il giorno dopo il voto l’umore è stato altalenante, ma da subito Keir Starmer si è messo al lavoro, con nomine che non potevano non dare speranza per il futuro. Un totale di 11 donne su 25 ministri, quasi tutti i ministri hanno frequentato le scuole statali britanniche, invece delle scuole private che in passato hanno formato la classe privilegiata del potere.

Le nomine governative di Starmer

Alcune nomine sono inaspettate, ma ben accolte come Rachel Reeves, prima donna a coprire il ruolo di Cancelliere, economista che ha lavorato alla Bank of England, o Richard Hermer, il nuovo procuratore generale, avvocato di primo ordine, ma anche Angela Rayner, vice premier e segretario di Stato per coesione sociale, alloggi e comunità, la prima volta per una ministra cresciuta come madre single in una casa sociale.

Quindi David Lammy agli esteri, Yvette Cooper come ministro degli Interni, e James Timpson, nuovo ministro per le prigioni, imprenditore e riformatore del sistema penitenziario, che ha dato lavoro a molti ex detenuti e crede nell’importanza di trovare soluzioni alternative per le tante persone che sono in galera per motivi insignificanti.

Ed Miliband, Segretario di stato per la sicurezza energetica e net zero cerca di velocizzare la transizione dalle fonti fossili alle rinnovabili, eliminando da subito molti dei vincoli sull’installazione di pale eoliche in terraferma.

Il primo gabinetto del neo eletto Primo Ministro britannico Keir Starmer, foto di Lauren Hurley / No 10 Downing Street.

Sembra che la frase pronunciata da un importante esponente della campagna per la Brexit, Michael Gove, durante il dibattito sulla Brexit nel 2016 e cioè ‘The people of this country have had enough of experts’ (la gente di questo paese ne ha abbastanza degli esperti) non sia la posizione del nuovo governo.

E possiamo quindi sperare di tornare a un sistema dove il potere viene gestito da persone oneste ed esperte nei loro settori e dove la democrazia e lo stato di diritto vengono riconfermati.

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