Il nuovo libro di Vera Gheno, Grammamanti. Immaginare futuri con le parole (Einaudi, 2024) costringe a riflettere sul rapporto che abbiamo con la nostra lingua. Abbiamo una relazione sana e matura o piuttosto irrisolta con le parole nostre e altrui e ci irritano neologismi, forestierismi e linguaggio giovanilistico?

Insomma siamo grammamanti o grammarnazi? Con questi due intriganti neologismi, la sociolinguista Vera Gheno in questo suo sedicesimo libro ci introduce al potere centrale della lingua di autodefinirci, di collocarci nel mondo e di nominarlo.

Con il garbo che la distingue da sempre e l’impegno a rispettare le infinite sfaccettature dei rapporti umani, ha scelto l’amore come guida per grammamare, cioè

«apprezzare la lingua nella sua adorabile e non sempre prevedibile complessità».

La teoria della paleoantropolga Falk

La prima storia d’amore che racconta riguarda la nascita del linguaggio e, fra le tante teorie attestate, ha scelto la putting the baby down theory, letteralmente “posa il pupo”, della paleoantropologa Dean Falk. Secondo questa studiosa il linguaggio sarebbe nato dalla necessità di mantenere un rapporto in qualche modo fisico con i neonati, emettendo soltanto suoni poiché le mani erano impegnate nel lavoro.

E si sa quanto le donne non abbiano mai tenuto le mani in mano, ma abbiano sempre partecipato attivamente alle necessità quotidiane di sopravvivenza. Mantenendo un contatto vocale, i piccoli erano almeno rassicurati e poi, nella crescita, tenuti a bada rispetto a possibili pericoli.

Nel mare magnum di teorie questa è sicuramente la più affascinante e, tra l’altro, assegna alle donne un ruolo non marginale nella costruzione della storia comune.

L’importanza dell’ambiente

L’autrice prosegue con la descrizione dell’apprendimento individuale del linguaggio, fondamentale per esistere nel presente, rivivere il passato e immaginare il futuro, «infuturarci, per prendere a prestito un neologismo dantesco […] quali animali narranti e narrati» come siamo.

Foto di Jessica Da Rosa su Unsplash.

Fra le tante zone d’ombra che persistono e rendono per molti versi ancora oscuro il processo di acquisizione del linguaggio, sembra certa l’influenza dell’ambiente sulla persona e anche questo fatto, agli occhi dell’autrice, è faccenda regolata dall’amore. Prova ne sono gli esperimenti compiuti su neonati privati da relazioni affettive.

Come dire che «nasciamo con una mobilia linguistica precaricata nella nostra testa […] che rimarrebbe lì se non ci fosse un elemento imprescindibile: l’aiuto di chi ci circonda, di chi ci parla».

La lingua non è un museo

La lingua ci dà visibilità, infatti «a presenza linguistica corrisponde maggiore presenza sociale» ma «la nostra società è fortemente sbilanciata a favore dei “normali”» che «hanno il potere di nominare i “diversi”» sovente per sottrazione: a-normali, non vedenti, non udenti.

Franco Basaglia, ricorda l’autrice, sosteneva che «da vicino nessuno è normale», ma anche l’assenza di etichette non è la soluzione perché non siamo tutti uguali, piuttosto potremmo riconoscere le differenze come risorse e permettere alle persone di autodefinirsi. La lingua non è un museo dove i normali sono i visitatori che nominano gli innominati nelle teche. 

Su questo aspetto della lingua, e sul politicamente corretto, l’autrice si diffonde perché il nostro sguardo, come la nostra lingua, ignora aspetti che per altri sono centrali.

«Solo chi non ha mai provato il morso doloroso delle parole può pensare che quelle attraverso le quali veniamo definiti o definiamo le altre persone siano irrilevanti».

Ognuno di noi dispone di un corredo linguistico unico e irripetibile, l’idioletto, «quindi la nostra lingua è singolare quanto il nostro Dna […] ma è contemporaneamente un bene personale e collettivo, il che implica che ogni nostra scelta abbia conseguenze sul nostro intorno».

Verso un linguaggio ampio

L’autrice affronta anche il tema controverso del genere linguistico auspicando l’uso di un linguaggio ampio che non sostituisce o cancella nulla, soltanto aggiunge nuovi modi di esprimersi e, per sua natura, non è normativo: suggerisce nuove modalità espressive senza obbligare a percorrerle.

Il saggio di Gheno si giova di molti riferimenti circostanziati e citazioni e termina sorprendentemente con alcuni consigli su come grammamare.

Grammamanti è l’ultimo libro di Vera Gheno, edito da Einuadi, 2024.

Intanto «non schifare nessuna forma assunta dalla parola» e già questo è un duro colpo per tutti i grammarnazi, i cosiddetti puristi, e poi parlare tutte le lingue che si conoscono, senza vergogna per il proprio percorso migratorio. Viaggiare, mantenersi curiosi cercando i significati delle parole sconosciute.

Osservare le differenti situazioni comunicative e sforzarsi per differenziare la propria produzione linguistica. Chiedere a chi sa di più per colmare le nostre lacune. Ascoltare altre lingue in musica, film, serie, meravigliandosi della varietà di fonemi. Imparare qualcosa a memoria, dalle poesie ai numeri di telefono, perché quello linguistico è un muscolo e come tale va tenuto in esercizio.

E infine ricordarsi che «amare richiede fatica: nessuna relazione prospera se non ci si impegna per farla funzionare. Così anche quella con le nostre parole deve essere curata. É una fatica che viene ripagata, perché grammamare ci fa vivere meglio. Per me, la salute passa anche dalle parole: salus per verba, per usare il latino».

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