A Delfi, sul frontone del tempio di Apollo, c’è scritto: “γνῶθι σεαυτόν”(gnōthi seautón), “conosci te stesso”. È un’ esortazione che ininterrottamente ha viaggiato nel tempo, tanto che, ormai, è conosciuta ovunque. Riesce a trovare la massima espressione di sé in chiunque le dia terreno fertile.

Conoscersi è un modo per sapere quali sono le nostre ricchezze, i nostri limiti, le nostre zone d’ombra e le nostre luci; è un modo di prendersi cura di sé.

Per fare questo è necessario introvertire energie creative cercando, per esempio, di ripor- tare dentro di sé ciò che ci riguarda ma che, mal sopportandone l’esistenza o non riconoscendolo come nostro, abbiamo relegato in una zona oscura del nostro inconscio. In questo modo, appena se ne presenta l’occasione, la proiettiamo su qualcun altro: trasferiamo su altri ciò che ci disgusta e che non vorremmo avere o ciò che ignoriamo di noi stessi.

Una funzione della proiezione è, quindi, di difesa; è un meccanismo fisiologico, una funzione inconscia propria dell’Io che si attiva a fronte di situazioni troppo intense, situazioni che l’Io non è in grado di gestire direttamente. E così, per esempio, anche se non sappiamo nulla della persona “bersaglio” proviamo nei suoi confronti antipatia o simpatia, ce ne innamoriamo o la detestiamo.

Psiche utilizza questo processo inconscio perché fa di tutto per per riflettersi, vedersi e conoscersi. Non perde occasione e continua a proiettarsi su un qualcuno o qualcosa in cui, in qualche modo, si riconosce: non proiettiamo nel vuoto e “riconosciamo ciò che conosciamo”.

C. G. Jung

Questo processo continua fino a quando non avremo distinto ciò che è nostro da ciò che non lo è ed è quindi un modo per portare alla luce parti di noi che altrimenti potrebbero rimanere nascoste per tutta la vita. Porta in definitiva ad un cambiamento psicologico significativo: contenuti inconsci indifferenziati emergono divenendo progressivamente sempre più consci.

Però comprendere che si tratta di proiezione è difficile perché, per esempio, è difficile accettare che ciò che ci irrita di una persona appartiene anche a noi. Domandarsi dell’origine di ciò può aiutarci a distinguere, a ritirare la proiezione e ad ampliare la coscienza. Ci può aiutare a vedere noi stessi e, soprattutto, l’altro per quello che è: magari sempre antipatico, o magari un po’ meno, ma sicuramente meno disturbante. Abbiamo in questo modo integrato dentro di noi quella parte antipatica che non sopportiamo e abbiamo nascosto; ci siamo riconosciuti e più lucidamente possiamo comprendere cosa vogliamo fare con l’antipatico (o ex antipatico) in questione.

Ancora meno semplice è ritirare la proiezione dell’innamoramento. Quando ci innamoriamo cadiamo nell’idea che l’altra persona sia meravigliosa e le attribuiamo qualità che non ci sono o sono lievi. Generalmente dopo un periodo più o meno lungo, tutto questo coinvolgimento emotivo lascia il passo alla realtà e possiamo scoprire che tutta quella meraviglia non c’è oppure scorgiamo difetti che prima proprio non notavamo. La prima reazione è pensare che l’altra persona sia cambiata e che non è più la stessa conosciuta all’inizio e, per compensare la delusione della realtà, spesso entra in scena la svalutazione. Maggiore è stata l’illusione, maggiore sarà la svalutazione. In questo caso, il sipario sulla relazione si chiude con la complicità di una immaturità psicologica.

Il tempio di Atena a Delfi

L’ idealizzazione del o della partner è un processo normale nell’innamoramento a patto che non sia basata solo su aspettative totalmente irrealistiche e illusorie. Solo così, infatti, in una fase successiva, ritirata la proiezione, può rimanere un coinvolgimento affettivo e profondo basato su ciò che noi e l’altro siamo veramente. Oppure, al contrario, può emergere la consapevolezza che ciò che resta non fa per noi; quello che la proiezione ci indica è in parte la via verso noi stessi e la realtà dell’altro. Questo rende possibile comprendere meglio quale strada percorre.

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