Facciamo colazione in una cucina piena di sole. Sul tavolo c’è un delizioso pane nero triangolare, specialità di uno dei numerosi panifici industriali, e mozzarella locale: fanno anche la burrata, qui a Kharkiv. 

Sarei felice di essere a casa, con i miei genitori, se non fosse per le sirene che suonano mentre parliamo. Prima, quelle dell’allarme aereo, confermate anche dal telefono che si mette a strillare, poi quelle delle ambulanze. 

Là fuori è tutta una sinfonia di rumori per me nuovi: le moto che ruggiscono, il trapano dei vicini, lo stormire degli alberi frondosi che circondano i palazzoni del quartiere di Oleksiivka, dove la bruttura del cemento armato si stempera con i giardini e le fioriere, e il rumore dell’artiglieria in lontananza. Sembra che qualcuno stia spostando dei mobili, o conficcando dei pali nel terreno, ma non sono rumori di cantiere: è la guerra. 

Che è onnipresente e interfacciata con la vita normale di una grande città d’estate. Vuota di gente, ricca di fiori, di caffè all’aperto e di pubblicità giganti, che sono lì per coprire le ferite di tanti palazzi sventrati.

Accanto all’asfalto crepato per mancata manutenzione ci sono macchie di asfalto nuovo, ma non sai mai se è per la premura del sindaco Terehov o perché c’è stata una buca da coprire dopo un attacco russo.

Cambiano i nomi dei luoghi

Kharkiv, dove sono appena tornata, è sempre una splendida città europea, per molti versi all’avanguardia. La metropolitana con decine di stazioni è ancora gratis, ma la stazione Pushkinskaia ha un nuovo nome: ora è dedicata al principe medievale Yaroslav il Saggio. Le citazioni del poeta nazionale russo-etiope, scritte una volta con le lettere d’oro sui raffinati medaglioni di porcellana bianca sono state cancellate. 

Esco per passeggiare per il mio quartiere. Qui hanno vissuto quattro generazioni della mia famiglia, qui vivono ancora tanti amici, e ogni angolo è carico di ricordi. Ci sono presenze ed assenze ingombranti: dove una volta si ergeva il monumento a Lenin, ora c’è il vuoto. Dall’incrocio di Viale della Scienza con via dell’Indipendenza si arriva in piazza della Libertà: nella mia infanzia erano intitolate rispettivamente a Verità, intesi come “Pravda”, giornale del partito unico, Lenin e a Dzerzhinskyi, fondatore dei servizi segreti.

Due ragazzi a Kharkiv si abbracciano vicino al monumento agli universitari combattenti, caduti nella seconda guerra mondiale. Foto M. Sorina.

Questo cambio di toponimi riflette il cambio di paradigma, e a coronarlo c’è anche il cambio di destinazione d’uso di un gigantesco palazzo che sovrasta la piazza: nei tempi sovietici, Accademia militare, ora secondo edificio della già enorme Università statale di Kharkiv. A sinistra, uno dei pochi monumenti che si riferiscono al periodo sovietico ancora rimasto in piedi: quello degli studenti della Università Karazin che sono andati in guerra. Accanto, una giovane coppia si abbraccia: chissà, se anche a loro toccherà la stessa sorte? 

Facciate ricostruite, ma il pericolo permane

Nel parco che costeggia la piazza, ci sono tanti caffè modernissimi. Passando da uno all’altro sento profumi stuzzicanti di cucina italiana, georgiana, mediorientale, tranne nelle ore in cui il tutto è coperto dalla puzza dei generatori a benzina che assicurano la corrente elettrica durante i tanti blackout. 

In mezzo alla piazza spiccano due gruppetti di persone: accanto agli sposi che posano davanti ai fotografi, gli operatori comunali bardati coi gilet arancioni catarifrangenti, intenti a strappare le erbe intrufolatesi fra il selciato di granito, posto nel dopoguerra dai soldati tedeschi. Qui uno dei modi per ricostruire era usare loro come manodopera qualificata gratuita, cosa d’altronde non risparmiata nemmeno ai cittadini sovietici capitati nel gulag. 

Il municipio di Kharkiv con i pannelli di compensato alle finestre. In cima svetta la bandiera ucraina. Foto di M. Sorina.

La vita ordinaria, si direbbe, coi macchinoni giganti dalle targhe bizzarre che sfrecciano attraversando la piazza, Tesla e Mercedes alternati ai vecchi catorci e alle jeep mimetiche. Poi alzo lo sguardo e vedo il nostro municipio. Sui marciapiedi attorno ci sono gli scivoli per i disabili nuovi di zecca, ma il palazzo guarda la piazza più grande d’Europa con le finestre cieche di compensato. 

Una vota al centro aveva lo stemma sovietico attorniato dalle bandiere: ora c’è il tridente ucraino. Il prezzo di questo cambio del vettore di sviluppo è evidente: finestre infrante, conseguenza di un colpo brutale inflitto dai russi a marzo del 2022. I pezzi che erano crollati subito sono ormai ricostruiti, ma l’edificio rimane inagibile. La facciata rifatta non significa che è tutto a posto. Anche se le strutture interne fossero state rinnovate, per l’amministrazione cittadina non sarebbe prudente esporsi al pericolo di nuovo: dove hanno colpito una volta possono farlo ancora, in ogni secondo. 

A mio fianco c’è oggi un amico che ha deciso di farmi fare un tour dei locali più in del centro città. Marco era andato via in Israele con sua mamma nella primavera del 2022, ma ad agosto del 2023 sono rientrati: anche se lì erano circondati dalla premura dei parenti, era troppo triste stare lontani da casa. 

Marco mi racconta la sua vita da adolescente: esami di fine anno, il suo hobby – il gruppo di danza popolare ucraina che frequenta da tanti anni. 

Studenti festeggiano a Kharkiv la maturità, foto di Marina Sorina.

Il suo pacato racconto è intriso di guerra. L’esame di maturità, per esempio, l’evento centrale nella vita di un diciassettenne: il test dura quattro ore, i maturandi devono concentrarsi, per cui, onde evitare distrazioni di allarme aereo invece delle aule normali le prove si svolgono nei rifugi sotto la scuola, umidi soffocanti e mal illuminati.

Proseguirà gli studi come designer grafico in una università a due passi da casa sua. L’ha scelto però non per la vicinanza: tanto, le lezioni si svolgono su Zoom. Cerco di essere ottimista: «avrai cinque anni per studiare, vedrai che prima o poi vinceremo».

Marco mi sorride e distoglie lo sguardo.

Le poesie di Maksym Kryvtsov coprono il vuoto imposto dalla guerra

Passiamo accanto al Palazzo della creatività giovanile: ai miei tempi era dei Pionieri, ed è qui che si allena il suo gruppo di danza. Nel primo anno dell’invasione non avevano potuto ballare lì, il palazzo era stato colpito dall’onda d’urto nel momento della distruzione del Municipio. Poi lo hanno sistemato in qualche modo, ma quando Marco e gli altri danzatori sono tornati nella loro sala di prove, per terra erano rimaste minuscole schegge di vetro che si infilavano nelle suole delle loro scarpe e i costumi di scena erano stati lacerati dai frantumi. 

Una foto tratta dalla pagina Facebook di Maksym Kryvtsov.

Marco vuole portarmi in un locale speciale. Per arrotondare ogni tanto fa il barista per cui si sta studiando tutti i locali alla moda. Così mi porta da Makers, in una via che eravamo abituati a chiamare Pushkinskaia e che ora è intitolata a Hryhorii Skovoroda, filosofo ucraino

Il locale all’angolo è un sobrio mix di design ultra-moderno minimalista e pezzi d’epoca. L’atmosfera intima e la penombra non sono però frutto di progettazione: al posto dei vetri nei grandi archi i pannelli di compensato coprono il vuoto e a loro turno diventano un occasione per la creatività: sono ricoperti di poesie di Maksym Kryvtsov (poeta e combattente, il 7 gennaio 2024 è morto in trincea insieme al suo gatto, ndr).

Mentre sorseggio la sofisticata bevanda di kombutcha, yuzu e zenzero, rigorosamente Made in Ukraine, mi pongo un triste quesito: hanno scritto queste righe di amore e resilienza prima o dopo che Maksym era stato ucciso in guerra?

Strade con fiori e graffiti ma prive di gente

Uscendo, passiamo di fronte a un palazzo che mi ricordavo essere una elegante villetta ottocentesca in cui c’era qualche istituzione accademica. Infatti era la sede dell’Accademia delle scienze giuridiche. Così recita la scritta sulla targa d’ingresso, rimasta leggibile ma non illesa. Tutto attorno, mattoni spezzati e ferro divelto. «Quando l’avevano colpito, si sono incendiati gli abeti qui davanti e per molti giorni si è sentito l’odore di legno bruciato, come se fossimo davanti al camino in una baita di montagna”, commenta Marco. 

È così dolce-amaro tutto il nostro giro del centro. Strade silenziose, assolate, piene di fiori e di grafiti, vuote di gente. Il museo letterario coi ritratti dei poeti ucraini, e il consolato abbandonato del Paese che ha causato la morte dei molti di questi. Gruppetti di maturandi con i mazzi di fiori in braccio, vestiti a festa, con tanto di nastro con le scritte dorate sulle petto (un po’ simile a quelle del sindaco durante il matrimonio). Gli skater che sfrecciano sui gradini del Teatro d’opera, sfidando la forza di gravità. Piazzale giochi pieno di bimbi salterellini vocianti. Coppiette abbracciate sulle panchine all’ombra degli alberi. Le sirene in sottofondo non turbano nessuno. 

La vita e la morte, il presente e il passato intrecciati in una lotta eterna, qui sono più evidenti che mai. E nel pomeriggio, quando ci sediamo in un caffè all’aperto, di fronte ad un palazzo amministrativo totalmente sventrato che una ruspa sta riparando, e sorseggiamo la loro specialità (crema di latte al profumo di rosa), da qualche parte in un quartiere diverso di Kharkiv una bomba russa aviocomandata colpisce un palazzo residenziale vicino alla stazione degli autobus uccidendo 3 persone e ferendo 56 civili.

Oggi non tocca a noi. Domani chissà. Un motivo in più per amare la vita e ricordarsi chi ha causato tutto questo dolore alla mia amata città. 

Sulla facciata di un locale le poesie di Maksym Kryvtsov. Foto M. Sorina.

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